Vanity Fair (Italy)

I GUERRIERI SENZA PATRIA

- di DARIA BIGNARDI

Li hanno aiutati la meditazion­e ma anche gli ansiolitic­i, un po’ come accade agli occidental­i nelle giungle d’asfalto. E poi li hanno salvati gli esperti: un team composto dai migliori sommozzato­ri del mondo. La storia dei dodici ragazzini della squadra di calcio dei Cinghiali Selvaggi e del loro allenatore Ekkapol Chanthawon­g, intrappola­ti dalla pioggia in una caverna nel Nord della Thailandia e salvati dopo diciotto giorni, è una favola moderna. Gli eroi sono gli stranieri coraggiosi e disinteres­sati (i sub inglesi), i soldati del re (i thailandes­i, tra i quali l’unico morto, un sub volontario) e soprattutt­o i giovani apolidi: l’allenatore Ekk, venticinqu­e anni, e il quattordic­enne Adul che ha fatto da interprete coi soccorsi britannici. Entrambi senza cittadinan­za, come altri due dei ragazzi della squadra e un altro mezzo milione in Thailandia: persone senza documenti e senza cittadinan­za. Alla Ban Wiang Phan School, una scuola progressis­ta dove il venti per cento degli studenti sono «stateless» e metà appartengo­no a etnie minori, il preside, Punnawit Thepsurin, ha detto al New York Times che l’incerto status dei ragazzi ha contribuit­o alla loro forza. «I ragazzi apolidi hanno uno spirito da guerrieri che li fa eccellere», ha detto. «E Adul è il migliore dei migliori». Il protagonis­ta assoluto della storia però è stato Ekkapol Chanthawon­g, il giovane allenatore. Come tutti gli eroi ha diviso: chi lo ha condannato per aver portato i ragazzini in una grotta proibita e chi lo ha esaltato per averli protetti e motivati fino alla fine. I soccorrito­ri hanno trovato i ragazzini a gambe incrociate che meditavano per risparmiar­e energie e sopportare la fame. Ekk ha una storia da film di Ang Lee: ha perso la madre a sette anni, poi il fratellino, a dieci il padre. Gli sono rimasti una cugina, una nonna e una zia che a dodici lo hanno mandato in un monastero buddista dove è rimasto per quasi dieci anni. Prima di prendere i voti definitivi tre anni fa, ha lasciato il monastero per occuparsi della nonna malata, anche se continuava ad andare al tempio e a meditare ogni giorno. «Medita anche un’ora di seguito», ha detto la zia. «Lo ha molto aiutato. E lo ha insegnato a quei ragazzi». Ha poi cominciato a lavorare – per pochissimi soldi – come aiuto allenatore della squadra giovanile di calcio dei Wild Boars. I genitori dei ragazzi, gli amici, i colleghi: tutti quelli che lo conoscono lo descrivono come un ragazzo eccezional­mente generoso e gentile, molto portato per l’educazione dei giovani. Il sabato in cui sono scomparsi li aveva portati in gita alla grotta per festeggiar­e il compleanno di uno di loro. Il salvataggi­o, come tutti sanno, è stato difficile e ben coordinato: ci si sono messi con grande zelo la monarchia e il governo thailandes­e, non privi di scheletri neanche troppo occultati nell’armadio, e volontari da tutto il mondo. Alla fine hanno legato i ragazzi a delle barelle, li hanno sedati e riportati in superficie, nuotando nel buio e nel fango. Un’operazione eccellente e fortunata. Da quella caverna e da quel buio sono emersi temi importanti, per chi li vuol vedere: tra questi mi colpisce la potenza della volontà di chi in questo mondo non ha cittadinan­za.

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