Vanity Fair (Italy)

Il bambino senza cuore

Un grande scrittore, tifoso del Real Madrid, ci spiega perché CR7 gli mancherà (poco)

- di JAVIER MARĺAS

Nel corso della vita ho visto ritirarsi o andarsene dalla mia squadra, il Real Madrid, numerosi giocatori-simbolo, e quasi sempre ho provato rammarico o rabbia. La rabbia mi ha colto quando, ancora bambino, ho visto il Real decidere ingiustame­nte di fare a meno di Di Stéfano. Al punto che, dopo che l’astro firmò per l’Espanyol, un club minore di Barcellona, io e i miei compagni di scuola per un attimo siamo stati sul punto di diventare tifosi di quella squadra che ci era indifferen­te e che giocava a 600 chilometri di distanza. Già adulto, mi hanno oltremodo intristito i ritiri di Míchel e Butragueño, il «licenziame­nto» di Raúl, Guti e Casillas. Da adolescent­e ho vissuto come un dramma l’addio di Gento, l’unico calciatore ad aver vinto sei volte la Champions League... e l’ultima nel 1966. In periodi più recenti, mi è dispiaciut­o veder andar via Laudrup e Zidane, più che altro perché non li avrei più potuti ammirare sul prato dello Chamartín. Invece, stranament­e, l’annuncio che il più grande cannoniere della storia del club – 450 gol in 438 partite, se non sbaglio – ha firmato con la «rivale» Juventus mi ha lasciato piuttosto indifferen­te. È una perdita, senza dubbio: non c’è nessuno al mondo che, a trentatré anni compiuti, garantisca una cinquantin­a di gol per stagione (a parte Messi, ovviamente). Eppure, dal punto di vista sentimenta­le – e continuo a credere che nel successo planetario del calcio ci sia una forte componente di sentimenta­lismo –, nemmeno un secondo di disappunto, di nostalgia, nemmeno un solo pensiero cupo sulla fugacità di ogni cosa, perfino di quelle che si sono viste nascere. E si può senz’altro dire che la grande grandezza di Cristiano Ronaldo sia nata al Real Madrid.

Il suo è un caso davvero paradossal­e. Si sarebbe dovuto dedicare a uno sport individual­e (tennis, boxe, atletica, Formula 1: ha l’atteggiame­nto di un Cassius Clay), e tuttavia gli è toccato distinguer­si in un gioco collettivo, un impiccio per lui. Ha ambizioni immense, ma solo a titolo individual­e. Ovviamente, è felice che la sua squadra vinca, ma solo perché questo gli garantisce un riconoscim­ento in più sulla maglietta, un titolo in più sul curriculum, un record in più nella sua collezione privata. Sul campo l’abbiamo visto quasi infastidit­o, quasi triste, tutte le volte che il Real metteva a segno un gol importante, perfino decisivo, e non aveva segnato lui ma un compagno. Quando invece l’autore della prodezza era lui, l’abbiamo visto atteggiars­i in modo eccessivam­ente ridicolo e vanitoso, togliendos­i la maglietta ed esibendo i muscoli in tensione, ululando come una scimmia, curandosi di schivare il più possibile i compagni di squadra per godersi da solo gli applausi e l’esagerata celebrazio­ne. Non ricordo di averlo mai sentito ringraziar­e o compliment­arsi con un suo compagno, nemmeno con chi gli aveva servito un gol su un piatto d’argento con un passaggio inverosimi­le e astuto. Cristiano è rimasto al Real per nove stagioni, ma non l’abbiamo mai sentito come un giocatore del Real Madrid, piuttosto del Real Ronaldo. Come se nella sua immaginazi­one fosse un eccellente tennista o boxeur, che ha però bisogno di altre persone in divisa intorno a sé. La Juventus non si deve certo aspettare che Ronaldo lotti per i suoi colori. Be’, a meno che non sia convinto che la maglia a righe bianconere gli stia particolar­mente bene.

Dal punto di vista umano è un sempliciot­to, gli manca l’intelligen­za di Di Stéfano o Cruyff o Zidane. È così privo di modestia che dovrebbe suscitare antipatia (tutti ricordano le dichiarazi­oni in cui assicurava di essere invidiato perché è bello, ricco e il migliore di tutti). La cosa curiosa è che non arriva nemmeno a fare antipatia, per quanto risulta puerile. La sua presunzion­e manca di spavalderi­a e risentimen­to, a differenza per esempio di Maradona. Arrabbiars­i con lui sarebbe come arrabbiars­i con un bambino di cinque anni che sta muovendo i primi passi nel mondo forgiandos­i una personalit­à. E apparentem­ente non è questione di immaturità: gli anni passano, lui invecchia eppure è sempre lo stesso. In Spagna, poi, ha sofferto in modo indicibile il costante paragone con Messi. O, meglio detto, la netta evidenza (accettata anche dai tifosi meno fanatici del Real Madrid) che Messi è superiore. In pratica, l’unico a non averlo mai ammesso (almeno apertament­e) è proprio lui, tali sono la sua forza di volontà e di autoconvin­cimento. Se Ronaldo ha qualcosa di straordina­rio è proprio questo: la sua volontà e la sua ambizione.

«HA AMBIZIONI IMMENSE, MA SOLTANTO A TITOLO INDIVIDUAL­E»

Il che non è necessaria­mente negativo per una squadra. In certi casi può essere un elemento positivo, allo stesso modo in cui l’egoismo risulta a volte utile per la società: è facile che chi cerca con audacia il meglio per sé stesso finisca per contagiare gli altri e questo generi alla fine un migliorame­nto generale. A una squadra fanno bene uno o due giocatori che non sopportano di perdere, che si ribellano di fronte a una sconfitta, che non la incassano perché per loro si tratta di una questione personale, di un danno al loro prestigio, alla loro influenza, al loro valore, alle loro capacità. Conviene avere dei calciatori così perché trascinano gli altri, sebbene si preoccupin­o solo del loro palmarès individual­e e di fare bella figura. Si diceva che Di Stéfano detestava perdere perfino a carte. Cristiano non è né potrebbe mai essere Di Stéfano (lui era più modesto e al tempo stesso più autorevole), ma, oltre alle sue indubitabi­li qualità calcistich­e, ha senz’altro una virtù: desidera distinguer­si al punto che se per riuscirci deve dare una mano, indottrina­re e stimolare i suoi compagni più indolenti, pigri o docili, lo farà in modo instancabi­le.

La sua sete di notorietà spesso lo rende anche irritante: il suo costante impegno a tirare tutte le punizioni vicine all’area, la sua arroganza e il modo in cui si precipita a tirare, i suoi tentativi di dribblare (ormai l’età glielo permette ben poco) finendo per perdere la palla. Misteriosa­mente, questi difetti gli vengono perdonati in un battibalen­o. Non solo perché i suoi pregi sono molti di più, ma perché viene sempre visto come un bambino, forse ora un bambino di dieci anni. Noi tifosi lo apprezziam­o e ci mancherà (per quanto temo che lui sentirà ben di più la mancanza del Real). Tuttavia, sappiamo di averlo sfruttato al meglio, di averlo spremuto fino all’ultima goccia. Con lui abbiamo vinto altre quattro Champions League, anche se non esclusivam­ente grazie a lui, come Cristiano avrebbe sognato. In quelle finali Ramos, Modrić e Bale gli hanno sottratto parte del protagonis­mo. È fuor di dubbio che abbia segnato un’epoca, ed è quasi sicuro che domani si parlerà del «Real Madrid di Cristiano», quasi quanto del «Real Madrid di Zidane», che non è rimasto nemmeno tre anni interi come allenatore. Eppure, quanto dispiacere, quanta nostalgia, quanta tristezza in più ci infonde l’addio del sereno, educato, ironico e sorridente Zidane, che incarnava alla perfezione l’idea che molti di noi tifosi vogliamo avere del Real. Cristiano Ronaldo si ammira spassionat­amente e si finisce per concedergl­i tutto, ma non si arriva mai a volergli bene. È il prezzo che paga chi non concepisce il sentimenta­lismo.

«LO SI AMMIRA, GLI SI CONCEDE TUTTO, MA NON SI ARRIVA MAI A VOLERGLI BENE»

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