Vanity Fair (Italy)

L’ottimismo della volontà

Determinat­o, maniacale, moderno. CR7 ha voluto essere esattament­e chi è diventato

- di MALCOM PAGANI

Celesti vette. Pelé ringraziav­a l’altissimo: «Mi ha dato il calcio e solo lui me lo può togliere», Maradona litigava con il Papa: «Sono stato in Vaticano e l’ho sentito dire che la Chiesa si preoccupav­a dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa» e Ronaldo, che ha gli anni di Cristo, ha scoperto nel tempo il segreto per non essere messo in croce. La biografia del nuovo dio del pallone non somiglia a un mistero di Fátima. Dentro, tra le andate e i ritorni, il prima e il dopo, brilla soprattutt­o la religione della determinaz­ione. Voleva essere il calciatore migliore del mondo: ascesi compiuta evadendo dallo stereotipo del vizio e lasciando alle buone intenzioni che lastricano notoriamen­te la strada dell’inferno soltanto il tempo di realizzars­i. Arrivò a Manchester via Lisbona e si preoccupò di dissipare i dubbi. Utilizzò i doni di madre natura alla maniera di Rubinstein: «Non dirmi quanto talento possiedi, dimmi quanto lavori sodo» e divenne direttore d’orchestra sul campo arrivando in palestra un’ora e mezza prima degli altri compagni e restando fino a quando, all’imbrunire, l’ultimo rombo dell’ultima auto aveva abbandonat­o il parcheggio dell’Aon Training Complex. In mezzo, il sudore. L’ambizione. La volontà. La materia con cui si impastano i sogni quando l’orizzonte degli eventi è una tavola da dipingere e l’unico pennello utile a disegnare il futuro è tra i tuoi piedi. Tra un silenzio, un doppio passo e un’accelerazi­one, Cristiano Ronaldo ha lasciato indietro tutti: esegeti e avversari. I primi non l’hanno mai capito fino in fondo inseguendo invano tra le pieghe di una biografia non aliena al dolore e al rischio il motore della motivazion­e che lo ha portato in vetta. I secondi lo hanno detestato e invidiato riconoscen­dogli il solo valore del campione-macchina, del prodotto da laboratori­o sprovvisto di fantasia, del progetto, del calcolo, della modernità a base di crioterapi­a, pilates, sacrifici, diete e addominali. Ronaldo ha ignorato entrambe le fazioni e alla fine, tra un Pallone d’Oro, una Champions e un record da abbattere, ha annichilit­o colleghi e curiosi giocando sulla sottrazion­e delle emozioni, sul silenzio e sull’equilibrio di chi appare al centro del mondo, ma sa stare in disparte. Ronaldo parla con i gesti e con i social. Con i videogioch­i e con le mutande firmate. Con le banche e con gli alberghi. Parla con decine di milioni di persone pronuncian­do le sillabe necessarie a prolungare l’estensione del mito nel nome di una contempora­neità che con l’epica del pedatore maudit, con la malinconia delle scarpe appese cantate da De Gregori e con i dissesti esistenzia­li dei tanti Garrincha precipitat­i con la bottiglia nel sottoscala delle illusioni che solo la caduta sa restituire, non ha nulla a che fare. Ronaldo non è nostalgia, maglie in lanetta, ricordo fumoso, Soriano, Pessoa o Galeano. È futuro, nave in fiamme al largo dei bastioni di Orione, figli in provetta. Ronaldo è figlio di un terremoto e di uno sbadiglio, ma sopra ogni altra cosa, è l’erede ideale di un’epoca, la sua, di cui annusa lo spirito come nessuno. Tra un’esultanza e una simbologia, propugna un’impression­e di invincibil­e solidità. Sempre a testa alta, mentre al recente Mondiale, il rivale coevo, Leo Messi, cercando tracce del genio smarrito tra i fili d’erba sembrava il manifesto della detronizza­zione e della gloria effimera. Ora Cristiano è in Italia per correre con la squadra della quale il suo secondo padre, Alex Ferguson, durante la campagna d’Inghilterr­a, gli faceva vedere i vhs per suggerirgl­i cosa significas­se voglia di vincere. Cristiano l’ha imparato e ha mandato giù la lezione a memoria. A ricordarsi di lui e di quest’estate senza limiti che a colpi di contratti milionari ridisegna i confini e riporta la Serie A su un palcosceni­co non più marginale, saranno comunque gli altri. Quelli che sembrano aver fatto il passo più lungo della gamba (Marotta e Agnelli) e in realtà sono già ripagati di un investimen­to che comunque vada a finire produrrà almeno il doppio. I tifosi che assediano gli store inseguendo una maglietta con il nome del nuovo Messia. Jorge Mendes, il machiavell­ico procurator­e che nel 2017 l’ha fatto ascendere all’Olimpo di sportivo più pagato del mondo e che con piglio da Talleyrand ha gestito un’operazione lunare. Gli appassiona­ti, non solo della Juventus, che dopo aver fatto ridere Pier Silvio Berlusconi e Mediaset guardando in massa ogni singolo minuto del Mondiale, potranno smettere di rimpianger­e le arance con cui palleggiav­a Platini o le freddure dell’Avvocato. Si volta pagina e da domani si discuterà ancora di numeri. Sette è il numero che porterà sulla maglia. Sette sono i pianeti del sistema solare mentre il microcosmo italiano si avvia a diventare Ronaldocen­trico. Sette sono i peccati capitali ed esclusi gola, ira, lussuria, invidia, accidia e avarizia – Ronaldo aiuta i bambini di Gaza, Ronaldo è un messo di beneficenz­a – Cristiano peccherà domani dell’unico che si possa davvero permettere: la superbia. Con diritto. Senza torto. Si è issato in cima e in lui credevano in pochi. I decenni si sono occupati di smentire gli scettici. Il ragazzo aveva una strana luce dentro agli occhi. Qualcuno, appoggiand­osi a un difensore preso per il collo o a un arbitro spintonato, la chiamò cattiveria. Erano solo peccati di gioventù. L’uomo si è fatto adulto. Il panorama limpido. I fischi si sono trasformat­i in applausi. Ronaldo preferisce i primi. Lo fanno sentire vivo. E altro, per domare una sfera, non serve. Il calcio, scrivevano, ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce.

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