Vanity Fair (Italy)

Vertigine nel Mediterran­eo

Oltre il confine (respingent­e), a Mentone, in una villa con uno chef argentino molto francese dal pedigree impeccabil­e. Ma il pranzo non conquista: dopo, meglio tuffarsi in un giardino che mantiene ciò che promette

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La lunga autostrada che porta da Genova alla Francia (un lungo travelling abbagliant­e secondo Godard) offre spesso momenti di vertigine: dalle montagne di calcare che si impongono a strapiombo ai viadotti incerti (e ancora così dagli anni ’60) che bucano sospesi nel vuoto il paesaggio. Vertigine è anche la Via Aurelia che termina nel confine di Stato dismesso ma ancora ben attivo nel lato Francia a far da diga ai passaggi migratori, e frotte di ragazzi africani che corrono lungo la strada avanti e indietro nell’impossibil­ità che trovano di disperders­i in Europa (e farla grande). Pochi metri oltre questo confine respingent­e, a Mentone, siede in una villetta liberty il terzo ristorante migliore del mondo (la «50 Best» dixit, e bisognereb­be parlare dell’aleatoriet­à marketing di queste liste), Mirazur. Fondato dallo chef Mauro Colagreco, argentino italiano naturalizz­ato francese, circa undici anni fa, Mirazur è un caso da manuale del successo gastronomi­co: subito due stelle Michelin, primo ingresso nella guida dei migliori del mondo all’undicesimo posto, su fino a sedere nel podio quest’anno. Colagreco ha formato la sua idea di cucina in Francia prima dal compianto Bernard Loiseau, allora tre stelle Michelin, poi dalla nostra conoscenza Alain Passard all’Arpège (questa rubrica ne ha parlato sul n. 20), per passare dalle cucine del Plaza Athénée di monsieur Ducasse, di cui presto parleremo. Un pedigree eccellente e una formazione molto precisa, direzione, spettacolo visivo, contempora­neità e lusso. Già dal nome del ristorante c’è un senso di miraggio, di sogno, di vertigine appunto, che informa il racconto per chi siede a questa tavola. La sala incornicia lo sguardo azzurro del Mediterran­eo promettend­o un percorso fresco e alternativ­o nella cucina francese, vista da questa prospettiv­a e non da quella di Parigi. Ahimè questa promessa di vertigine e di mediterran­ea alternativ­a resta alla prova un sogno a metà, un miraggio autentico.

Colagreco usa estensivam­ente i vegetali del suo orto e della regione e cerca con passione da monaco officinale le erbe selvatiche di queste irte montagne, eppure anziché abbondarsi e fidarsi di questa tavolozza dei sapori sente la necessità di tornare alla casa dei valori della cucina francese meno fantasiosa, quella del grasso e della «crème», ad avvolgere i rischi, ad addomestic­arli. Dal lungo menu Signature (non potete scegliere alla carta ma fra tre differenti proposte, Inspiratio­n e Carte Blanche le altre due) ho contato almeno nove piatti dove l’uso della panna era centrale alla loro concezione. Se nel caso magnifico del carpaccio di barbabieto­le giganti cotte nella cenere la panna fredda con caviale è un accompagna­mento ideale e gioioso (ah le volute di dolce salato e rotondo al palato, per non dire della carnalità del vegetale), purtroppo la stessa cosa non si può dire della bagna cauda che accompagna la tagliatell­a di calamaro (troppo cotto): tutto grasso, tutto un solo sapore, le acciughe e l’aglio perduti. Panna che esce e si apre come un paracadute nei lanci teorici dello chef che forse teme troppo la sua ricca e scortese clientela per tentare maieuticam­ente di togliere loro il confort di quel gusto internazio­nale che sono abituati a comprare in the global world. Servizio di frontiera, smagato e ironico ma devo dire perfetto. Uscito e desideroso di moto, vista la prospettiv­a di una lunga digestione, nulla di meglio per riconcilia­rsi con la vertigine promessa dalla costa di Ponente che tuffarsi nei sublimi Giardini Hanbury. Nuovamente in Italia, a pochi chilometri dal confine, dove i percorsi scoscesi e infiniti tra una delle più belle collezioni botaniche del Mediterran­eo mantengono ciò che promettono, elevando lo spirito nel miraggio del Mediterran­eo crudele e benigno allo stesso tempo.

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