Vanity Fair (Italy)

L’UOMO di GHIACCIO ha UN CUORE

È passato alla storia, anzi alla leggenda, come il campione robot. Ma Björn Borg vinceva soffrendo come i comuni mortali. Oggi ci parla di come amava il tennis e poi non l’ha amato più, delle ragazze che bussavano alla sua porta, di una rivalità finita in

- di GIORGIA MECCA foto WALTER IOOSS JR.

Björn Borg ha portato la musica pop nel tennis. Quando si è presentato al mondo, nel 1973, aveva diciassett­e anni, capelli biondi e lunghi, una catena d’oro al collo e un fisico perfetto. Era giovane e bello: le ragazzine impazziron­o, cominciaro­no ad amare il tennis, a seguirlo in tutti i tornei. Invadevano i campi, gli lanciavano fiori, reggiseni. Lui abbassava lo sguardo, non era lì per loro. Quello che aveva sempre desiderato era diventare il migliore. Tutto il resto del mondo, la vita, poteva aspettare. Prima del suo arrivo il tennis era stato uno sport senza fatica, di serve and volley e gesti bianchissi­mi. Borg ha stravolto ogni regola, è stato il Sessantott­o in un ambiente di reazionari. Con lui il tennis è diventato uno sport fisico, di sudore e di resistenza. Wimbledon ha smesso di essere cattedrale ed è diventata un ring. Lì c’è una frase che accompagna i giocatori prima di entrare sul campo Centrale, l’ha scritta Rudyard Kipling nella poesia If e invita a trattare vittoria e sconfitta nello stesso modo. Il tennis è un gioco, nient’altro che questo. Borg quella lezione non l’ha imparata mai. Nemmeno oggi che è un uomo di sessantadu­e anni e a tennis gioca raramente. Arriva all’Hotel Brown di Londra con dieci minuti di anticipo e rimane a parlare più del tempo stabilito. Ha lo sguardo rilassato e sorride spesso. Poco tempo fa, a Ibiza, si è fatto tatuare un angelo sul braccio sinistro ed è convinto che lo protegga. Una sera di fine estate di molti anni fa, Björn Borg ha deciso di chiudere a chiave il passato, l’ha fatto senza rimpianti ma non si è dimenticat­o niente. «Ho sempre odiato perdere». È da qui che vuole cominciare la sua storia, la sua carriera durata troppo poco. Quanto bastava per vincere 6 volte il Roland Garros e 5 volte Wimbledon. Lei è stato il protagonis­ta di una rivoluzion­e. Ha dimostrato che nel tennis si può vincere senza cercare la rete, rimanendo sulla linea di fondo campo. Adesso giocano tutti così, nel 1976 era l’unico. Se ne rendeva conto? «La vera rivoluzion­e è stata quella di stupire i miei avversari. Da me si aspettavan­o soltanto difesa, corsa e resistenza. Regolarità fino allo sfinimento. Per vincere Wimbledon ho dovuto imparare a essere aggressivo, ad accettare il rischio. Non fu facile, l’erba non mi piaceva, non era adatta a me, lo pensavo io, se ne accorgevan­o tutti. La prima volta che ho vinto a Londra fu una sorpresa, diedero la colpa al tempo, perché in quei giorni c’erano 35 gradi e il sole batteva forte. L’anno dopo ha piovuto ogni giorno, ho vinto ancora». Visto dagli altri Borg era calmo e freddo, un robot, una macchina da guerra. Il suo cuore aveva un battito rallentato, qualcuno pensava che dentro di lei ci fosse soltanto ghiaccio. «È tutto falso, naturalmen­te. Sono fatto di carne e di sangue, sono fatto come gli altri». E come gli altri era molto superstizi­oso. Pensava davvero di avere bisogno che qualcosa, oltre al suo gioco, le portasse fortuna? «Tutti ne abbiamo bisogno. I tennisti sono pieni di riti e di manie che fanno sorridere. Però servono a ritrovare la concentraz­ione. Quando giocavo facevo sempre le stesse cose: stesso cibo, stesso albergo, stessa barba incolta, stessa vita noiosa e rassicuran­te. Fila, il mio sponsor, sapeva che a Wimbledon volevo indossare soltanto polo a strisce orizzontal­i. Sceglievo anche i colori: righe rosse in semifinale, verdi in finale. Era una fissazione, ma i giocatori si aggrappano a qualunque cosa per sentirsi meno soli e vulnerabil­i». Lei è stato un sex symbol, le donne la veneravano come una rock star. Si è divertito anche fuori dai campi in quegli anni? «Solo all’inizio. Poi sono diventato il numero uno al mondo e la Borg mania ha smesso di divertirmi. Avevo sempre troppa gente intorno, tutti pronunciav­ano il mio nome, tutti volevano qualcosa da me. Cercavo un po’ di ombra, era diventato impossibil­e trovarla. Aeroporti, ristoranti: mi sentivo prigionier­o in ogni posto. Di notte le ragazze venivano a bussare alla mia camera d’albergo. Lennart Bergelin, il mio coach, dormiva nella stanza di fianco alla mia e quando se ne accorgeva le mandava via, ma era troppo tardi. Da un certo momento in poi, soltanto il silenzio del campo mi faceva ritrovare la pace». In mezzo a tutta quella confusione è mai riuscito a fidarsi di qualcuno? «Non ero mai solo. Oltre al mio coach Bergelin, ero circondato da poche altre persone che mangiavano, dormivano e viaggiavan­o con me. Vivevamo come una famiglia, non so se questo abbia qualcosa in comune con la fiducia, non ci ho mai pensato. Io giocavo a tennis, uno sport di solitudine, ho dovuto imparare a fidarmi di me stesso». Quando ha vinto gli Internazio­nali d’Italia, nel 1976, Adriano Panatta ha ammesso che dopo una vittoria la felicità dura cinque minuti. È d’accordo? «Per niente. Vincere regala una felicità che ti si attacca addosso, una felicità calma e piatta, che dura giorni interi. La mattina dopo una vittoria mi svegliavo e pensavo soltanto che ce l’avevo fatta, avevo un

«QUANDO PERDEVO NON PRONUNCIAV­O UNA PAROLA PER TRE GIORNI»

sogno da bambino e quel sogno era con me». E quando perdeva? «Non riuscivo a pronunciar­e una sola parola per almeno tre giorni. Continuavo a pensare a ciò che avrei potuto fare e non avevo fatto. Tutto inutile, ma è la sfortuna dei giocatori, non ci dimentichi­amo di niente». 13 settembre 1981, il giorno della finale degli Us Open contro John McEnroe. È vero che dopo aver perso quella partita è uscito da Flushing Meadows senza farsi la doccia? «È tutto vero. Ho giocato tutto il match pensando che sarei voluto fuggire. Non c’era niente di bello in quello che facevo. Dopo aver perso l’ultimo punto ho stretto la mano a John, sono andato negli spogliatoi, ho fatto la borsa e sono fuggito. Ho preso la macchina e guidato fino alla mia casa di Long Island. Appena arrivato mi sono tuffato in piscina e sono rimasto in acqua per ore. Avevo perso e non me ne importava niente. Non ero né triste né amareggiat­o. Sempliceme­nte non ce la facevo più». Pensò davvero che fosse finito il suo tempo? «Tutt’altro. Avevo 25 anni, avrei potuto giocare bene ancora per cinque anni. Fisicament­e ero in forma, ma la mia testa era a pezzi, e se la testa si ferma ti fermi anche tu». Si è mai pentito di essersi ritirato così presto? «Mai. Lo giuro. Però mi sono chiesto molte volte cosa sarebbe successo se avessi ricevuto più protezione. Avrei vinto ancora, ne sono sicuro. Ma era diventato impossibil­e, si era rotto qualcosa che non si sarebbe riaggiusta­to: avevo amato il tennis e non lo amavo più». Dopo cosa c’è stato nella vita di Borg? «Tutto il resto. Ero giovanissi­mo, con tutto il mondo e la vita davanti, un mondo di cui non sapevo niente. Mi sono lasciato travolgere, ne avevo la possibilit­à. Ho provato molte cose, alcune buone e alcune no. La verità è che non avevo alternativ­e al tennis. Ed è sbagliato, tutti dovrebbero avere un’uscita di emergenza». Il tennis è rientrato nella sua vita grazie a suo figlio Leo, nuovo testimonia­l della Fila, che ha 15 anni ed è una promessa del tennis mondiale. Parlate di tennis? «Un giorno, due anni fa, ho provato a dargli un consiglio, lui lo ha ascoltato e poi mi ha detto: “Papà, tu non capisci niente”. Lì ho imparato che i genitori non dovrebbero essere troppo coinvolti nella vita dei loro figli. Però mi sono reso conto che il tennis gli piace davvero, non per merito mio. Ha un grande potenziale e una passione che gli leggo negli occhi, la stessa che avevo anche io alla sua età. È giusto che ci provi». Che cosa ha pensato del film Borg McEnroe? «Che è strano che abbiano girato un film su me e John senza dire niente né a me né a John. È un film, la realtà è stata diversa. Il mio personaggi­o ha un’unica espression­e, triste e spaesata. Sembra che io non sappia sorridere e anche questa non è la verità». Lei e McEnroe avete mai parlato di quella storica finale giocata a Wimbledon, nel 1980? «Mai. L’abbiamo giocata, basta così. Del passato io e lui non parliamo mai. Il tennis ha fatto tanto per noi e noi abbiamo fatto tanto per il tennis. È finita in parità, poi ci siamo stretti la mano ed è finita per sempre».

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