E un giorno cadde il cielo
«L’ho visto nascere, ma mai e poi mai avrei immaginato di vederlo morire». Così parla il pensionato Franco che vicinissimo al ponte Morandi ha vissuto per oltre cinquant’anni. «Era talmente sempre lì, che a un certo punto non te lo ricordavi nemmeno più»,
«Lo so che pesa, ma è la cosa più preziosa che ho: le foto di quelli che non ci sono più» _ Patrizia, mentre sgombera la sua casa in via Porro 7
Deve essere una forma di difesa quella per cui il ponte Morandi, visto da lontano, sembra un giocattolo: una costruzione Lego che un bambino, a un certo punto, ha distrutto col piede, stizzito. Anche i camioncini rossi che si muovono senza sosta, là sotto, sembrano un pezzo del gioco. Solo che poi, da uno di questi, scende un pompiere col viso stravolto, allunga una mano e chiede dell’acqua. Non c’è nessun bambino capriccioso, è tutto vero. Ed è talmente vero che Brooklyn – così i genovesi chiamano il ponte Morandi – è un pezzo della città. Di più: i suoi piloni entrano nelle case, il suo nastro di cemento è il cielo degli abitanti di via Porro che, alzando la testa, vedevano solo quello. «Era talmente sempre lì, che a un certo punto non te lo ricordavi nemmeno più», dice Carlo Mei che sotto quel ponte ci è nato, ci ha giocato a palla, è cresciuto. «Io invece non me lo dimenticavo mai», spiega Vito Rella, 64 anni, di cui gli ultimi 8 passati sotto il cavalcavia. «C’era quel rumore costante dei camion, e poi di notte le voci degli operai che ci lavoravano, il bagliore delle luci che usavano. Non si dormiva tanto bene, qui, diciamo la verità. Però paura, io, non ne ho mai avuta: vedevo che continuavano a fare manutenzione e poi sono un geometra: lo so che il cemento vive». Del ponte mi raccontano che oscurava il sole, riparava dalla pioggia, sparpagliava fango o polvere sulle auto in sosta: una divinità immanente e incombente con cui fare i conti. Layla, che lavora all’ortofrutta all’angolo con via Campasso, va un passo oltre: «La gente, qui, lo sentiva che c’era qualcosa che non andava».