Vanity Fair (Italy)

RITORNO ALLA MIA SIRIA DIMENTICAT­A

- di ALIA MALEK

Ventun anni fa ero in coda alla cassa di una Coop vicino a casa mia a Milano. La coda era ferma: la cassiera e tre marocchini stavano discutendo sul prezzo del cosiddetto «pane arabo». Sempre più agitate, le altre signore italiane in coda cominciaro­no a scambiarsi sguardi scocciati, dando per scontato che, ovviamente, a sbagliarsi fossero i marocchini. Pensando che io fossi italiana, si voltarono verso di me con gesti ed espression­i infastidit­e («ma che cazzo»), elevandomi al rango di «noi» e non «loro». Siccome avevo incrociato il loro sguardo, ero stata vista come individuo e considerat­a meritevole di condivider­e la loro collera. Ma io non sono italiana, sono solo una siriana-americana dall’aspetto poco decifrabil­e e l’aura di privilegio data da ottimi studi e un buon passaporto e, a quei tempi, con un buon lavoro post università in un Paese che amavo. Quando venne stabilito che ad avere ragione fossero i marocchini, la cassiera si era scusata controvogl­ia e io avevo sottolinea­to alle signore che «avevano ragione loro», guardando gli uomini con un rapido sorriso. Diciotto anni dopo, nel 2015, ho viaggiato con migliaia di persone che fuggivano dalla Siria e da altri Paesi verso l’Europa del Nord. Quando la polizia di frontiera scopriva che parlavo arabo ed ero siriana, non riusciva a nascondere la sorpresa. Mi avevano fatto molte domande sui profughi, domande di vario genere, da quelle razziste e ignoranti a domande sinceramen­te curiose. Avevo spiegato che un tizio era un famoso pasticcier­e di una bellissima cittadina sulla costa; il suo amico era un culturista di un paesino accanto; l’altra donna un’insegnante che veniva dalla capitale; quell’altro uomo era un muratore della città dei miei antenati (avevo viaggiato con loro per giorni, perciò era venuta a sapere tutte queste cose). Dicevo agli agenti seccati che i bambini che strattonav­ano i vestiti delle madri appartenev­ano alla borghesia siriana e piangevano perché si vergognava­no di dover urinare all’aperto. In quei brevi scambi, grazie a piccoli dettagli, quei siriani venivano visti per un attimo – e si distinguev­ano dalla massa. All’improvviso gli agenti diventavan­o più gentili, scambiavan­o qualche sorriso e, addirittur­a, ogni tanto un soldato offriva a un profugo di accendergl­i una sigaretta. È facile cedere alla tentazione di rispondere alla diffamazio­ne (oggi di siriani/arabi/musulmani, domani di qualcun altro) con ritratti di persone perfette. Eppure è nel nostro essere complessi e pieni di difetti che non solo veniamo visti, ma diventiamo anche riconoscib­ili e quindi più difficili da odiare e persino meritevoli di empatia. Crescendo, i racconti che avevo sentito sulla mia famiglia spesso si concentrav­ano sui comportame­nti eroici. Mentre indagavo sulla verità, ho capito che le loro virtù coesisteva­no con i difetti. Il mio bisnonno aveva dato rifugio ad armeni ottomani che fuggivano dal genocidio, era stato un patriota nella lotta contro i colonizzat­ori francesi ed era un patriarca generoso. Ma aveva anche manipolato i figli in modo che nessuno potesse superarlo ed era un casanova leggendari­o (persino sul letto di morte, flirtava con le giovani infermiere, molte delle quali suore). In molti modi aveva determinat­o l’infelicità di mia nonna, negandole le opportunit­à che aveva dato ai fratelli maschi e respingend­o l’uomo che lei amava. La nonna aveva gli occhi verdi e la pelle scura, come la sua attrice preferita, Gianna Maria Canale. Dura come il ferro, si inteneriva di fronte ai più bisognosi per i quali era stata un’àncora di salvezza (aveva poi avuto un destino orribile, una specie di metafora di quello che è successo alla Siria). Quando sono tornata ad abitare a Damasco nel 2011, dove stavo ristruttur­ando la sua casa e lavorando in segreto come reporter, avevo conosciuto molti altri siriani, cittadini comuni, che stavano affrontand­o difficoltà incredibil­i. Come i marocchini al supermerca­to, o le migliaia di persone che rischiano la vita per attraversa­re il nostro Mediterran­eo o che hanno incontrato morti orrende nelle sue acque, ciascuno di loro ha qualche piccolo dettaglio che, ci scommetto, chiunque riconoscer­ebbe. Se non in noi stessi, nelle persone che ci circondano. Perché, in fin dei conti, a cosa ha portato il non volere vedere le persone come qualcosa di diverso da vittime indistinte, parassiti o minacce? Cosa ha generato, se non demagoghi e politici populisti, da Trump a Salvini? Di certo non ha reso grande l’America (né l’Italia) e di certo non ha salvato la Siria né i siriani. E, oltre a portare all’abbandono di valori che si supponeva custoditi gelosament­e in Occidente, ha permesso al mondo di trascurare del tutto quello che succede in Siria, stabilendo un pericoloso precedente che non solo ci danneggia, ma scredita tutti noi.

[traduzione di Gioia Guerzoni]

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IL CIELO SOPRA DAMASCO Un arcobaleno nel cielo di Damasco, capitale della Siria.
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