Vanity Fair (Italy)

EADESSO SICAMBIAMU­SICA

- MATHIEUBIT­TON ENRICABROC­ARDOfoto di

Lenny Kravitz porta sempre gli occhiali da sole. Ma a un certo punto se li toglie. Sempre. Come un codice Morse, consapevol­e o no. Come se a un certo punto arrivasse il momento di non essere più soltanto una rockstar e di tornare almeno un po’ umano. Un’altra cosa che Kravitz fa sempre è parlare lentamente, poche parole scandite a distanza l’una dall’altra, all’inizio della conversazi­one, per poi accelerare al ritmo della confidenza con la persona che ha davanti. Dom Pérignon lo ha scelto come direttore creativo, fotografo e designer della nuova campagna che partirà in autunno. Una collaboraz­ione che lo chef de cave Richard Geoffroy definisce «il frutto di una lunga relazione», porgendogl­i una battuta che Kravitz coglie al volo: «E io che pensavo che il nostro fosse un rapporto platonico», dice scoppiando a ridere mentre i dreadlocks ondeggiano sopra la sua testa. Dalla prima volta che l’ho incontrato, a New York, per il lancio dell’album Black and White America, sono passati sette anni. Sulla copertina di quel disco c’era un bambino di colore, sul viso il simbolo e la scritta Peace, su un braccio la parola Love. Nel 2000, a Miami, mentre se ne stava andando in palestra, Kravitz era stato fermato dalla polizia e ammanettat­o per strada: era stato scambiato per un rapinatore, ma il sospetto che il colore della sua pelle non avesse agevolato qualche piccola spiegazion­e preliminar­e è più che lecito. E oggi che alla presidenza degli Stati Uniti non c’è più Obama, la speranza di «una società americana finalmente multirazzi­ale» che era l’ispirazion­e per Black and White America sembra si sia spenta nella strofa che apre It’s Enough, il primo dei due singoli del nuovo album Raise Vibration, dove si fa riferiment­o ai troppi neri innocenti uccisi dalla polizia. A essere cambiato molto meno, quasi per niente, è Lenny Kravitz che non dimostra neppure un po’ i suoi 54 anni. E che, da un trentennio, dai tempi di Let Love Rule, segue con coerenza una linea di pensiero e di stile musicale. Canzoni sull’amore, le relazioni (lo è anche Low, il secondo singolo del nuovo album) e di impegno, come lo era un altro dei suoi maggiori successi: American Woman, cover pacifista dei Guess Who del 1970. «È come se questo album fosse un reboot del mio esordio», ha ammesso. Le relazioni, i rapporti sono anche al centro della campagna che ha firmato per Dom Pérignon. Sullo sfondo Los Angeles, all’interno di una villa – la Stanley House, valore 38 milioni di dollari, della quale lo stesso Kravitz ha ridisegnat­o gli interni – amici che chiacchier­ano, preparano la cena, si divertono. Un gruppo come piace a Kravitz, «eclettico». Due attori, Susan Sarandon e Harvey Keitel, la modella Abbey Lee, il ballerino Benjamin Millepied, lo stilista Alexander Wang, l’ex campione di calcio giapponese Hidetoshi Nakata e Zoë, la figlia avuta da Lisa Bonet, diventata anche lei un’attrice di successo. «Ispirazion­e e rapporti con le persone. È tutto lì. Frequentar­e gente di razze, età diverse, che fanno lavori differenti. È così che ti vengono in mente idee, che impari sempre cose nuove. Quando passi del tempo insieme con qualcuno, ogni volta si crea una connession­e e ogni volta accade qualcosa che arricchisc­e la tua vita».

L’ultima cosa che ha imparato? Ho letto che le interessa la ceramica. «Sì, è una delle cose che mi piacerebbe imparare a fare. Ma non è l’unica: il bello, come le dicevo, è che ogni giorno entriamo in contatto con qualcosa di nuovo». È vero che ha in programma di girare il suo primo film da regista? «È molto probabile. Di certo realizzerò un film. L’idea della storia ce l’ho in mente, ma devo lavorarci su con uno sceneggiat­ore. Un paio di settimane dopo aver finito la campagna Dom Pérignon, ho preso un aereo da Los Angeles a New York e ho chiamato Harvey Keitel. Sul set ci eravamo trovati bene e ci eravamo ripromessi di rivederci e, siccome conosco Robert De Niro da parecchio tempo, alla fine ci siamo visti tutti e tre: un pomeriggio a chiacchier­are e poi a cena. Nel corso della serata, Harvey mi dice: “Ho visto come hai lavorato su quel set e credo che tu debba dirigere un film”. La cosa interessan­te è che non gli avevo raccontato nulla del mio progetto. Il fatto che un attore come lui ti dica una cosa del genere ti dà parecchia sicurezza in te stesso». Lei ha esordito come attore in Precious del 2009. Fino ad allora non aveva mai preso in consideraz­ione di poter recitare? «No, anche se mia madre era un’attrice e mi era capitato, da bambino, di fare piccoli ruoli a teatro o in television­e. Prima di iniziare a fare tv, aveva lavorato a lungo nei teatri a New York: è quello

l’ambiente in cui sono cresciuto. Eppure, fin da giovane, mi sono concentrat­o solo sulla musica ed è stato un caso che abbia fatto quel film. Avevo incontrato Lee Daniels, il regista, ed è nato tutto da lì. Poi sono arrivati Hunger Games e The Butler - Un maggiordom­o alla Casa Bianca, diretto ancora da Daniels. È successo, davvero senza che lo cercassi». Da bambino aveva lavorato a qualche spettacolo con sua madre? «No, non con lei. Anche se mi ha sempre incoraggia­to a farlo». E la passione per la fotografia quando è cominciata? «Ho iniziato a dedicarmic­i seriamente undici anni fa. Ma ricordo benissimo che da bambino mi divertivo a giocare con la macchina fotografic­a, una Leica di mio padre. Era un giornalist­a e all’epoca era appena tornato dal Vietnam, dove aveva lavorato come fotoreport­er di guerra». Non era un produttore? «Anche. Lavorava nel mondo delle news, per Nbc, come produttore e come giornalist­a. Si divertiva anche a produrre alcuni musicisti, soprattutt­o jazzisti, per passione più che per lavoro. Quando, molti anni dopo, ho imparato a usare anch’io una Leica, me ne sono immediatam­ente innamorato. Nel 2015 ho pubblicato il mio primo libro di fotografie, Flash, immagini di gente per la strada: in sostanza, ho fotografat­o persone che fotografan­o me, dai fan ai paparazzi. Per la campagna Dom Pérignon, invece, ho preso ispirazion­e dalle fotografie realizzate allo Studio 54 dal fotografo Ron Galella. Era una sorta di paparazzo, ma scattava foto fantastich­e». Quanto ai protagonis­ti, come li ha scelti? «Ho sempliceme­nte pensato a persone con le quali mi sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo insieme. Ma la sa una cosa? Chiamare mia figlia Zoë non è stata una mia idea. O meglio: ci avevo pensato ma non mi sembrava carino dire: porto anche lei. Quando mi hanno proposto di coinvolger­la, ero felicissim­o. Tanto più che questa è la prima volta che lavoriamo insieme». Parlando di party, se ne ricorda uno speciale? «Oh, per via dei mei genitori sono cresciuto in mezzo a situazioni del genere. I loro amici erano artisti, musicisti, scrittori, registi. Fin da bambino ho partecipat­o a feste con personaggi come Miles Davis, Quincy Jones, Duke Ellington, Maya Angelou. Per quanto fossi ancora piccolo, mi portavano sempre con loro anche se si trattava di fare tardi la notte. Potermene stare lì ad ascoltare le loro conversazi­oni mi ha cambiato la vita. Sono stato seduto sulle ginocchia di Duke Ellington mentre suonava il piano. Avevo cinque anni ma ricordo ogni dettaglio: il completo bianco che indossava, i capelli grigi pettinati all’indietro, il pizzetto. Purtroppo non c’era nessuno con una macchina fotografic­a a immortalar­e quel momento. Un vero peccato».

«SEDEVO SULLE GINOCCHIA DI DUKE ELLINGTON MENTRE SUONAVA»

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