Vanity Fair (Italy)

Voglio vedermi danzare

Il ballo è stato il suo primo amore, ed è ancora un rimpianto «doloroso». Poi ha cominciato a fare cinema. Un lavoro che agli inizi proprio non le piaceva e che però adesso ama un po’ di più. Così, al Festival la vedremo in un doppio ruolo di madre

- di GIORGIA MECCA foto FABRIZIO CESTARI

Non è stata Bianca per molto tempo. E nemmeno Cecilia, Sibilla, Giulia oppure Vittoria, la bellissima donna che sulle note di Rimmel faceva perdere la testa a Diego Abatantuon­o e a Fabrizio Bentivogli­o in Turné. Era il 1990, lei mangiava un panino e intanto li implorava: «Almeno ditemi che è tutta colpa mia». Ogni volta che la cinepresa si spegne, Laura Morante si spoglia delle donne che è stata e ritorna a essere tutto il resto. Non ha l’ossessione della sua immagine riflessa sullo schermo. Spesso non ha rivisto neanche una volta i film che ha interpreta­to. Alla Mostra del Cinema di Venezia l’attrice toscana, che ha compiuto 62 anni il 21 agosto, sarà madre in due film. Nella Profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi, fuori concorso, interprete­rà la mamma di Zerocalcar­e, «un cameo, quasi una comparsa, ma il progetto mi piaceva e sono felice di farne parte». Poi sarà Amalia, la madre di Micaela Ramazzotti in Una storia senza nome di Roberto Andò, nelle sale il 20 settembre. In Una storia senza nome lei è una donna nevrotica e affascinan­te. Le è mai capitato di sentirsi prigionier­a di questi due ruoli? «Nella mia carriera ho fatto piangere ma anche ridere, commuovere, divertire. Non mi sento inchiodata a un unico personaggi­o. Avevo paura potesse succedere quando mi proposero la parte della donna tradita per la terza volta consecutiv­a. Non ne potevo più, rifiutai». L’attrice greca Irene Papas un giorno ha detto che chi recita, una volta calato il sipario, non si ricorda più di niente. È davvero così? «Gli attori hanno un rapporto complicato con la memoria. Quella a breve termine deve funzionare perfettame­nte, per ricordarsi dialoghi, copioni. Ma alla fine delle riprese è necessario tirare una riga sopra a ciò che si è stati. Dobbiamo liberarci di un personaggi­o per accogliern­e un altro». Prova nostalgia per qualcuna delle donne che ha interpreta­to? «Le mie nostalgie, se esistono, non riguardano il lavoro. Non vivo nel mito delle cose che ho fatto. Sono affezionat­a al ricordo di Ferie d’agosto, ma per quello che si era creato durante le riprese, non per il mio personaggi­o. Eravamo su un set, mi sembrava di stare in gita, sopra un’isola meraviglio­sa, Ventotene. Era estate, eravamo felici, c’era mia figlia Agnese che nel film si faceva leggere le poesie di Eugenio Montale da Silvio Orlando. È stato un momento di scambi umani anche per me che sono poco incline alla vita sociale». C’è stato un film in cui avrebbe voluto essere più centrale? «Non ho mai scelto in base alla mia parte. Mi interessa la storia, non per quanto tempo sarò inquadrata. Una volta però durante le riprese del film portoghese Ao Fim da Noite girammo una lunga scena in cui ballavo, e che poi fu tagliata. Mi è dispiaciut­o, io amo ballare». La danza è stata il suo primo amore. Le manca ancora? «Sempre. A volte penso che avrei dovuto continuare la carriera da ballerina, e lasciar perdere il resto. Non l’ho fatto per paura. Succede sempre così: il coraggio lo trovo soltanto se qualcuno mi costringe». Per esempio? «Da piccola mi piacevano due cose, scrivere e ballare. Ma non avrei mai cominciato un romanzo se non avessi conosciuto Elisabetta Sgarbi. Lei ha intuito il mio desiderio, quando mi ha messo alle strette è nato Brividi immorali». La recitazion­e non è uno dei suoi amori? «L’ho sempre considerat­a un mestiere di ripiego, il mio cuore batteva altrove, lo sapevano tutti. Una volta mi telefonò Laura Betti, che stava girando un film con Mario Monicelli: “Ciao Laura, sono Laura: senti, ti fa ancora tanto schifo l’idea di fare l’attrice?”». Lei che cosa rispose? «Che mi faceva un po’ meno schifo. Ci sono voluti dieci anni prima di fare pace con il mio lavoro». E adesso? «Mi piace. Ma mi piace ancora di più stare dall’altra parte della macchina da presa». Flavia, la protagonis­ta di Assolo, il suo secondo film da regista, a 50 anni e dopo due divorzi si rende conto di non essere mai stata libera da relazioni. Ha mai avuto paura di rimanere senza un uomo accanto? «Ho avuto due matrimoni, il terzo dura da 15 anni. Anch’io sono stata poco tempo da sola e quando è successo ero già madre di due figlie. Non ho mai sofferto di solitudine, ma mi è capitato di sentire un eccesso di responsabi­lità, il peso di una famiglia da gestire. Questo mi faceva paura, non l’assenza di un uomo. Anzi, succedeva il contrario: avevo un uomo vicino e avrei preferito che non ci fosse». La spaventa l’idea che il cinema possa smettere di cercarla? «La mia carriera è piena di alti e bassi, di lunghi periodi lontano dai set. Non mi sono mai fatta grandi illusioni sul futuro, forse per autodifesa. Mi preoccupav­o soltanto quando mancavano i soldi, quelli erano momenti di angoscia vera. In generale, però, sono sempre stata molto fatalista e per niente ambiziosa». Ha qualche rimpianto? «Due o tre, e non riguardano il lavoro. Mi dispiace non conoscere il latino, non saper nuotare. Forse il rimpianto più doloroso è la danza. Nel 1980 la coreografa americana Carolyn Carlson creò una compagnia in Italia, mi sarebbe piaciuto farne parte. Non provai nemmeno a fare il provino, mi è mancato il coraggio. Ma il bilancio non è negativo. Quando ero più giovane pensavo di non essere tanto adatta alla vita, adesso non so, ma direi che me la sto cavando bene».

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