Dolce è la notte
Le sue cover salva borsa hanno successo in tutto il mondo. VALENTINA AZZIA, rigorosa nel lavoro come nella dieta, coltiva da sempre una passione. Che le dà conforto
Succede che idee apparentemente semplici abbiano grandi effetti. Come quella borsa in feltro ideata come guscio in cui infilare la propria borsa firmata, regalo per le clienti di un evento con cui Stefano Agazzi e Valentina Azzia, titolari di una società di packaging per il mondo della gioielleria, hanno raddoppiato il loro percorso d’impresa. Una cover anti graffi e anti pioggia di nome Save My Bag di successo inaspettato: «Venivano a chiederne altre, per la sorella o la cugina». Allora, anno 2013, quell’omaggio si trasforma in un marchio di accessori oggi studiato anche all’Università Bocconi, un caso di cover che ha coperto il mondo, vedi gli ultimi flagship store aperti a Venezia, Città del Messico, Los Angeles, Saint-Tropez, Cannes e Riccione. Calendario 2018 di un’icona innovativa anche nel materiale, di nome Poly-Fabric Lycra, un concentrato di Made in Italy in cui tutto, dal primo taglio all’ultima cucitura, si produce a Bergamo. I segreti creativi sono tanti, destrutturare una forma strutturata, non fare concorrenza ma piuttosto accompagnare i marchi del lusso, sviluppare un’idea che mancava: «C’era posto per una borsa da abbinare a quella tradizionale, multifunzionale, colorata e accessibile, che spingesse all’acquisto impulsivo». Altrettanto impulsiva è stata per Valentina Azzia la decisione di raddoppiare al volo i suoi impegni, con Save My Bag: «Non avevo nulla da perdere». Forse il tempo a disposizione, ma l’imprenditrice, con il gusto della sfida nel sangue, vive rincorsa dalla sua severità: «Da quando mi ricordo di me». Senso del controllo incorporato? «Cambiando molte città e dovendo ogni volta ricostruire una griglia, fin da giovane cercavo certezza». Cresce allora in un’autodisciplina rivolta anche alla tavola, con un’alimentazione filo-ferrea addolcita dal profumo di Ovomaltina. La polvere in granelli incontrata negli anni di scuola a Singapore, in una vita logisticamente movimentata in cui il punto fermo si stabilisce, da subito e per sempre, nel cioccolato. Tavoletta e surrogati sono l’angolo serale in cui fuggire, giusto il tempo di un morso: «Non importa dove sono e cosa trovo, prima di dormire devo regalarmi un dolce. A volte anche dopo avere lavato i denti». Succede quando Azzia cerca di resistere, sdraiata sul letto, fino a quando il desiderio sale e la fa alzare, direzione dolcezza. Se invece si resiste? «La mattina dopo non sto meglio, anzi mi sento stupida. Ho perso un momento di cura di me e di appagamento. Quel cubetto è un istante di autostima, me lo sono meritato». Ci si potrebbe gratificare con un maglione o un paio di scarpe: «Sono un lusso esterno, che non entra nel corpo». Da ragazza sgattaiolava al buio, verso Nutella e cucchiaino: «Allora non era per conciliare il sonno». Però era sola, come le piace essere, molto, oggi: «Vivo circondata in ufficio e in casa, una moltitudine che alimento io stessa ma che può drenare, anche perché difficilmente cerco conforto o mi confronto». Si conforta con se stessa: «Quando viaggio per lavoro esploro arte, quartieri e faccio sport. Uso il tempo al massimo, di certo non scappo da me». E finalmente fermarsi? «Avrei paura di non aver sfruttato tutto il potenziale. Dovrei rinascere diversa, sono programmata per alzare il tiro». Persino con la citata Ovomaltina, passione che comporta un viaggio in Svizzera per fare scorta di tavolette, con cui si scatena l’idea di un franchising: «Ho anche messo un annuncio su Facebook per fare importazione in Italia». Sempre più lontana dall’idea di fermarsi: «Forse mangerei solo cioccolato, a casa io e le tavolette». C’è chi vive meglio? «Li guardo con curiosità». Restando stabile a tavola e nella vita, escluso l’auto-permesso di una sosta serale. Che sotto forte stress può diventare una grande tazza di latte e cioccolato: «La mia cena bollente, al bisogno».
«Uso il tempo al massimo: quando viaggio per lavoro esploro e faccio sport»
tanto, e quando si è parlato di costruire la Gronda e di spostarli, Cinzia era contraria. «Dicevano che ci mandavano a Begato, ma non è una bella zona, avrei avuto paura a tornare di notte, dopo i turni». Fa l’operatore socio sanitario in psichiatria, un lavoro difficile «ma io sono forte e positiva», dice. Deve esserlo davvero, visto che riesce a sorridere accarezzandosi la testa implume: «Ho non uno, ma due tumori primari: seno e rene. Il destino a volte si accanisce con cattiveria».
Dieci minuti al massimo, lo stretto indispensabile, il casco non se lo tolga mai, stia coi colleghi, faccia quello che dicono loro. Va bene? Va bene. Patrizia Salmonese non sa più con che mani tenere le valigie in cui mettere quel che può in quei dieci minuti di tempo che le ha ordinato il vigile del fuoco. Le hanno permesso di rientrare in casa – civico 7, zona rossa, precisamente sotto il moncone di ponte – per recuperare quel che riesce. Come si fa a scegliere tra le cose di tutta una vita? In attesa di indossare il casco piange. «Venga con me», mi dice. Mi danno un elmetto, e andiamo. Quel che resta del ponte, visto da sotto, fa davvero paura. Dicono che gli stralli del pilone qui sopra si stanno disallineando, la struttura si sta muovendo e torcendo, come una lucertola a cui hanno staccato la coda. «Stia calma», le dice uno dei due vigili del fuoco che ci accompagna, «non cadrà proprio adesso». La casa è curata, «guardi la cucina che bella, sto pagando le rate». Apre una valigia e ci butta dentro piccoli gioielli, qualche cornice d’argento, abiti alla rinfusa: un prendisole e una giaccavento. Il futuro incerto confonde le stagioni. E poi c’è da portare via la chitarra di suo fratello. Io mi ritrovo in mano un sacchetto di nylon pesantissimo. «Scusa cara, lo so che pesa. Ma è la cosa più preziosa che ho: le foto di quelli che non ci sono più. Devono stare con me». Scendiamo le scale di fretta e con sollievo. Non cadrà proprio adesso ma non doveva cadere nemmeno il 14 agosto.
Le storie delle 43 vittime sono una serie infinita di «non doveva»: un ritardo, una scelta dell’ultimo minuto, un appuntamento, un semaforo rosso o uno verde. Piccoli svincoli della vita di tutti i giorni che non sono niente, fino a quando diventano tutto. Dentro il gabbiotto della Lodi Mario e Figli, Alessandro – che è uno di questi figli – ha lo sguardo sfinito. Avevano diversi negozi di fiori in giro per la città e poi «cosa vuole, è rimasto solo questo», davanti all’obitorio dell’ospedale San Martino, dopo una curva stretta come quelle di montagna. Entrano da lui per un crisantemo, un mazzolino di rose, a volte raccontano il perché di quel fiore, più spesso no. Il suo panorama non è mai allegro, ma in questi giorni è stato un viavai di ambulanze e carri funebri: «Sono stanco, stanco di vedere solo dolore. Vorrei vendere e andare via: non ce la faccio più». Nella camera ardente una delle prime bare ad arrivare è quella di Luigi Matti Altadonna, 35 anni e quattro figli. Ad attenderla c’è una donna minuta che non sa dove guardare e allora si guarda i piedi. Le chiedo se è una parente, mi risponde «Io, sì, sono la zia di Luigi, chi è il suo?». Mentre mi scuso e le dico che non è nessuno, che sto solo lavorando penso che non è vero, che il mio potrebbero essere tutti. E che potrei essere anche io.