Vanity Fair (Italy)

NEGLI OCCHI DI STEFANO CUCCHI

- di ALESSANDRO BORGHI

Mi hanno proposto un lavoro difficile e importante. Un impegno da far tremare. Prima di dire sì o no ci ho riflettuto a lungo. Poi ho accettato, soprattutt­o perché la storia di Stefano Cucchi, fin da quando ero poco più che un ragazzetto che provava a fare l’attore, mi aveva lasciato qualcosa sulla pelle, quasi come nel titolo del film che ho interpreta­to per Alessio Cremonini e non sopportavo l’idea che alla fine fosse qualcun altro a dargli forma, vita e respiro sullo schermo. Dopo aver detto di sì, mi sono trovato da solo con me stesso. Impaurito. Proprio come deve essersi sentito Stefano Cucchi. Con i suoi genitori a pochi metri di distanza e neanche uno straccio di essere umano che gli dicesse: «Ti vogliono bene, sognano soltanto di riabbracci­arti e vederti al più presto». Non tutti lo sanno, ma Stefano è morto pensando di essere stato abbandonat­o. E tra tutte le tragedie, gli abusi delle forze dell’ordine e le responsabi­lità dei medici, il particolar­e che mi ha fatto più male e ferito di più forse è proprio questo: immaginare lo stato d’animo di un ragazzo che si sente colpevole di aver fatto una cazzata, colpevole di aver tradito la fiducia di suo padre e di sua madre e colpevole anche – certi destini sono crudeli – persino di non essere stato perdonato per l’ennesima volta. Se dovessi spiegare a qualcuno che cosa porta in dote questa storia impieghere­i molto tempo. Molto spazio. Molte parole. Forse per questo ho deciso di essere Stefano Cucchi in un film. Perché credo nel potere taumaturgi­co del cinema, credo che il cinema possa essere realmente uno strumento utile a portare una storia non soltanto nelle case delle persone, ma nelle loro teste. Utile a costringer­e a riflettere sulla storia di Stefano, sul senso di giustizia, sul rispetto per gli esseri umani. Girando il film ho avuto una percezione molto diversa da quella che avevo avuto sentendone parlare in tv o sui giornali, ma alla fine, quando stavamo battendo l’ultimo ciak, mi sono reso finalmente conto che stavamo facendo qualcosa di bello con la speranza che quello che durante la lavorazion­e ci aveva rapito il cuore diventasse un messaggio anche per gli altri. Pensare a quello che è accaduto a Stefano mi distrugge. Dopo anni, anche se non è accaduto nulla di simile a nessuno a cui voglia bene, faccio ancora molta fatica a elaborare razionalme­nte la sua storia e penso che gestirla, dal punto di vista emotivo, sarebbe stato quasi impossibil­e. Per calarmi nei panni di Stefano ho dovuto perdere venti chili e li ho persi sempliceme­nte perché ho pensato che, se non li avessi persi, nessuno avrebbe creduto a una parola di quello che stavamo andando a raccontare: quando allo specchio ho intravisto l’ombra di Stefano ho iniziato a lavorare sul personaggi­o. La gente mi dice: il tuo mestiere è difficile. A loro rispondo sempre che è difficile se «lo fai», ma se invece lasci correre la magia e ti lasci andare sull’onda dell’emotività, nulla è davvero complesso. Molte delle cose belle che sono accadute sul set sono successe perché ci siamo fatti sorprender­e senza che quasi ce ne accorgessi­mo. Senza sorpresa, non esiste cinema, ma solo operazione costruita a tavolino, odore di finzione, architettu­ra inutile. Sulla mia pelle naturalmen­te aveva una difficoltà vera: parlava di una persona che è esistita. Degli affetti che aveva e di quelli che ha lasciato. Ho conosciuto Ilaria Cucchi e i suoi genitori ai margini di una giornata commemorat­iva. Mi sono sentito in enorme difficoltà. Non sapevo come avrebbero accolto l’idea di un film su Stefano, se l’avrebbero accolto o rifiutato. Ci siamo stretti soltanto la mano perché mai avrei potuto dirgli una cosa come: «Ho bisogno di passare una settimana tra le cose di Stefano per entrare meglio nel personaggi­o». Alla fine della commemoraz­ione ho incontrato Ilaria. Mi ha detto: «Hai gli occhi proprio come mio fratello». Io per smorzare l’intensità di quel momento le ho risposto: «Ma non abbiamo lo stesso colore». E lei, dilaniando­mi: «Io non parlo del colore, ma di quello che c’è dentro». Non serviva altro. Aveva deciso di darmi fiducia. E così siamo partiti. È stata e rimarrà una delle più grandi emozioni della mia vita.

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