Vanity Fair (Italy)

DOPO AVER DATO L’ADDIO ALLE STORIE TESE FINALMENTE MI DO ALL’OPERA

- di FERDINANDO COTUGNO foto JULIAN HARGREAVES

Da Tapparella al Barbiere di Siviglia. Elio ha chiuso a fine giugno la lunghissim­a avventura con le Storie Tese, con un concerto al festival Collisioni di Barolo. L’addio è stato lungo e pieno di passaggi (la festa ad Assago, la partecipaz­ione a Sanremo, poi un tour) ma è definitivo. Ora Elio (si chiamerebb­e Stefano Belisari, ma Elio è per sempre Elio, anche senza Storie Tese) può occuparsi dell’altra sua passione oltre al rock zappiano e irriverent­e: la lirica. Sempre quest’estate ha messo in scena a Macerata con Francesco Micheli Cantiere Opera, spettacolo dedicato a Gioachino Rossini: è andata benissimo, «come nelle favole, oltre ogni aspettativ­a». Il prossimo impegno è come curatore artistico di Amadeus Factory, il talent per musicisti dei conservato­ri italiani organizzat­o dalla rivista Amadeus. I vincitori riceverann­o una borsa di studio OVS Arts of Italy, la cui nuova capsule collection, in vendita dal 22 settembre, si ispira a cinque opere liriche italiane (per le donne) e al pubblico dei teatri nell’Ottocento (per gli uomini). Come dice Elio, dobbiamo smetterla di aver paura di toccare la lirica: «L’opera è un genere popolare, democratic­o, come i film per tutti». È difficile parlare di musica colta in un Paese con una soglia di attenzione inesistent­e? «È vero, l’attenzione è ai minimi termini. Ma è anche un problema di presentazi­one. Come la cucina francese: è inferiore a quella italiana, ma sono bravi a presentare i piatti e per questo continua a essere la più celebrata. Certo, poi c’è un altro problema, se rendo l’opera attraente per i non appassiona­ti c’è sempre il melomane che si alza e urla allo scandalo». E col melomane offeso come si fa? «Vogliono presentare l’opera come un prodotto d’élite, e questo contribuis­ce alla costante diminuzion­e di pubblico. Da quando sono nato, la vedo presentata come una cosa “per intenditor­i”, “solo per gente ferrata” e pure io, che sono diplomato in flauto, me ne tenevo alla larga. È un atteggiame­nto poco intelligen­te, anche la musica contempora­nea ha fatto così, dicevano: “Meno pubblico c’è, meglio è”. Ora piangono». Il progetto Amadeus Factory è divulgazio­ne dell’opera: con quale spirito si approccia? «Con lo spirito di uno che pensa che per l’Italia la cultura potrebbe essere un motore che manda avanti tutto, l’opera è un prodotto italiano, come la moda. Gli stranieri vengono qui e pensano che l’ascoltiamo tutto il giorno, quando invece non interessa a nessuno e lo Stato la mantiene in vita come un malato in coma. Anni fa un ministro del governo Berlusconi disse: con la cultura non si mangia. Se lo ricorda?». Le cose non sono migliorate nel frattempo. «Sono musicista, ma anche laureato in ingegneria, abituato a tenere i piedi per terra. Come italiani, non siamo certo conosciuti nel mondo per le industrie siderurgic­he. E ora mi fa ridere quando sento dire che al governo è arrivato uno che si fa rispettare, ma se c’è una cosa per cui siamo rispettati è la lirica. L’unico ambito in cui dire “all’italiana” è un compliment­o». Amadeus Factory è un talent: insomma, il modello X Factor funziona? «Ora bisogna dire che tutto è un talent. È una gara di cantanti con un premio: Canzonissi­ma allora era un talent? E Sanremo? Comunque bisogna dire talent per attirare l’attenzione e quindi io dirò talent: è una gara di giovani talenti della lirica». A X Factor però avrà imparato a trattare i giovani, a svezzare talenti. «Sì, ma anche sull’idea di giovane dobbiamo intenderci. Rossini a 24 anni ha scritto Il barbiere di Siviglia ed è diventato immortale. Oggi se vediamo passare uno di 24 anni immaginiam­o la sua vita a casa con mamma e papà, sta finendo gli studi, forse tra cinque o sei anni si butterà nel mondo del lavoro. Rossini a 37 anni si era già ritirato». A fine luglio è stato il suo compleanno: lei è uno che li festeggia? «Purtroppo sì, è una cosa che mi rende sempre più attonito. Ho 57 anni e vivo la cosa come se stesse accadendo a un altro, ma perché me lo chiede?». Per sapere se le fa effetto il tempo che passa. «Mi fa moltissimo effetto il tempo che passa, mi piacerebbe vivere a lungo, vedere i risultati del mio lavoro, anche sull’opera». Ha in mente un lavoro così lungo? «La mia impression­e è che sarà un lavoro duro e lungo, non vedo questa grande risposta. Se aspettiamo le istituzion­i, poi, è finita. Solo Milano, dopo anni di oscurantis­mo di centrodest­ra, sta procedendo in direzione opposta, tra poco riapre il Teatro Lirico». C’è chi la vorrebbe Città Stato. «Fortunatam­ente negli ultimi anni è così, ma ce ne sono stati altri in cui ero disperato. Era tutto basato su quel principio che con la cultura non si mangia, ora invece Milano è un esempio anche per altre città. Ma anche in Emilia e Toscana vedo fermento». Insomma, si tiene attivo nonostante la fine dell’avventura con Elio e le Storie Tese. «Tutto l’impegno della mia vita è andato nella direzione della guerra alla noia. Mi chiedono sempre: “Ma perché vi siete sciolti?”. Ho letto di recente una vecchia intervista a John Lennon, gli chiesero la stessa cosa, lui rispose: “Per noia”. E poi argomentan­do: “Quando lavori e vivi gomito a gomito con le stesse persone per tanti anni, arriva il punto in cui sai già cosa accadrà, cosa dirà l’altro, in cui è tutto prevedibil­e”. Anche nella nostra band stava accadendo questo. Il che non cancellerà mai le figate meraviglio­se che abbiamo fatto, che nessuno aveva fatto prima e che, con orgoglio rivendico, credo non farà più nessuno».

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