La casa di cashmere
«Mi sono accorto che i maglioni erano tutti beige, e li ho fatti colorati». È nato così, 40 anni fa, l’impero di Brunello Cucinelli, l’imprenditore mecenate neo-umanista dall’infanzia contadina. Siamo andati a trovarlo a Solomeo, il suo «principato», da d
Nell’arco di un’ora Brunello Cucinelli può citare a memoria filosofi, scrittori, imperatori romani alla stessa velocità e precisione con cui altri possono sciorinare la formazione della squadra del cuore nell’anno in cui vinse lo scudetto. La squadra del cuore di Cucinelli (che, comunque, attenzione, ne sa anche di calcio) è formata da Platone e Sant’Agostino, Immanuel Kant e San Benedetto, con un posto d’onore all’imperatore Adriano, quello di Marguerite Yourcenar, non quello che giocava nell’Inter. Un immenso busto dell’imperatore giganteggia nell’ingresso della sede dell’azienda che, come noto, è specializzata in cashmere e abbigliamento di altissima qualità e vede tra i suoi clienti, per esempio, Jude Law, Leonardo DiCaprio e Daniel «007» Craig. La sede si trova a Solomeo (Perugia) e non si può parlar di Cucinelli senza parlare di Solomeo e viceversa. Questo borgo di 500 anime è immagine e cuore dell’impresa fondata esattamente 40 anni fa. Allora Solomeo era abbandonato e in rovina, Cucinelli lo ha trasformato in una cartolina rinascimentale animata, ispirandosi a Jean-Jacques Rousseau, che nomina, citando: «Le nostre città sono difficili da vivere, dobbiamo tornare nei borghi, ridiscutere e riprogettare l’umanità». Così, a Solomeo è stato costruito un teatro dove vengono a recitare attori stranieri (Charlotte Rampling e Ralph Fiennes, per dire) e italiani. Di recente, Michele Riondino ci stava provando Il maestro e Margherita. A Solomeo c’è anche una biblioteca aperta a tutti e una scuola per sarti e «première», le specialiste ricamatrici di capolavori d’alta moda, «un tempio laico delle arti e dei mestieri», come lo chiama il fondatore, che attira ragazzi e ragazze anche dall’estero. Non contento, il febbrile Cucinelli ha comprato la terra che sta intorno e a valle del borgo, buttato giù alcuni metri cubi di capannoni che servivano a poco e rovinavano l’estetica. Negli ultimi quattro anni, ci ha fatto crescere le viti e gli ulivi, il grano (il migliore, il «senatore Cappelli»), gli alberi da frutta e un campo di girasoli. «Il mio sogno era abbellire la periferia», dice. L’operazione è stata battezzata «Progetto per la bellezza». In fondo, su una piccola altura, si erge un monumento circolare in stile neoclassico: «Un tributo alla dignità dell’uomo», mi spiega. Cucinelli è nato poco distante, a Castel Rigone. «Conoscevo Solomeo perché ci venivo spesso con Federica, allora la mia ragazza, poi diventata mia moglie. Ci eravamo conosciuti sul pullman che ci portava a scuola», racconta. Stanno insieme da allora, due figlie e due nipotine dopo, Federica si occupa della Fondazione e delle molte attività culturali. Anche le ragazze e i rispettivi compagni sono in azienda. Cucinelli, che si potrebbe definire un Lorenzo il Magnifico dei giorni nostri, è un self-made
man. Il padre Umberto (ancora vivo, ha 97 anni, abita nella casa di fronte al figlio) era contadino. Della sua infanzia, Brunello racconta: «Eravamo poveri ma vivevamo bene, avevamo il cibo in tavola ma non si parlava mai di soldi. Acqua dal pozzo, niente luce. Le nostre previsioni del tempo erano il cielo, il nostro orologio era il sole», ricorda. «Quando avevo 15 anni, ci trasferimmo in città. Il babbo e il mio fratello maggiore andarono a lavorare in un’azienda di prefabbricati in cemento armato. Niente finestre, entravano con il buio e uscivano con il buio. Tornavano a casa affaticati e con lo sguardo di chi aveva subito tante umiliazioni». Non che al piccolo Brunello, a scuola in città, andasse meglio. «Noi di campagna eravamo derisi per come parlavamo, per come ci vestivamo, per i capelli tagliati in casa. Oggi, anche se abiti in campagna, hai lo stesso telefonino e gli stessi jeans di tutti gli altri. Ma, allora, noi eravamo bersagliati dai dispetti. A un mio compagno, orfano, timido, rubavano di continuo la merenda. Un giorno mi feci dare un panino in più da mia madre e ci versai dentro una confezione di lassativo e sostituii con quello la merenda del mio amico. I soliti bulli la rubarono, poi passarono la giornata in bagno e, da allora, la merenda non gliela fregarono più». Molti anni dopo, Cucinelli, un vero appassionato di scherzi, è in Giappone, nella sede di una grande azienda partner. «All’ingresso c’era un orologio senza vetro, portai le lancette in avanti e mi misi a guardare lo spettacolo di quelli che arrivano a timbrare il cartellino convinti di essere in disperato ritardo», racconta, ridendo, compiaciuto come un discolo. La goliardia, Cucinelli l’ha imparata al bar dove, dice, ha trascorso dieci anni della sua vita. «Il bar è stata la mia università, un corso intensivo sugli esseri umani. Al bar si imparano cose che nessun libro ti spiegherà mai». Iscritto all’istituto per geometri e poi per tre anni alla facoltà di Ingegneria, ha combinato poco: «Eravamo in pieno ’68, a scuola e all’università c’erano solo manifestazioni e assemblee, ce la si cavava tutti con il sei politico, non c’era bisogno di studiare. Ho dato un solo esame ma partecipavo a tutte le discussioni. Oppure stavo al bar. A quei tempi, la mia migliore amica era una puttana con il marito in prigione. Lei aveva 35 anni, io 17». Sul futuro, che lo avrebbe portato ad avere un’azienda quotata in Borsa e considerata un modello virtuoso in termini di organizzazione e qualità del lavoro, non aveva certo le idee chiare. «Uno dei primi tentativi di mettere su un’attività mia fu avviare un allevamento di lumache. Scapparono tutte. Io e i miei soci, cinque o sei amici, cercammo di recuperarle a una a una in mezzo all’erba medica. Poi pensammo di allevare conigli ma non se ne fece niente. Infine, provammo coi lombrichi. Un altro disastro». Poi, un giorno, la folgorazione. «Mi sono accorto che i maglioni di cashmere erano tutti beige e ho pensato che se avessero avuto dei colori diversi il mercato si sarebbe ampliato, alle donne, per esempio. In quel periodo andavano di moda le maglie aderenti sotto ai tailleur. Andai dal miglior tintore di tutta l’Umbria, gli portai del cashmere che avevo acquistato e gli chiesi di tingerlo. Mi diede del matto ma poi si convinse. Con sei maglie, arancio, rosa, azzurro, colori così, andai a una fiera in Germania che si svolgeva all’Hotel Hilton di Monaco. Un amico italiano che parlava tedesco entrava e usciva dalla stanza dicendo: “Signor Cucinelli, complimenti, che belli questi colori”. I compratori hanno cominciato a entrare, incuriositi. Siamo ripartiti con ordini per 11.800 maglie che, al momento, non sapevo nemmeno come produrre». Oggi Cucinelli festeggia i 40 anni della sua intuizione bizzarra che l’ha portato molto lontano, in tutti i sensi, ma il centro del suo universo è sempre lo stesso: la casa nel borgo, l’azienda a portata di sguardo, abitanti che conosce quasi tutti per nome. «La mia vita ideale è quella di Kant. O dei monaci benedettini. Stessa routine tutti i giorni, il tempo giusto dedicato al lavoro, il tempo giusto dedicato alla preghiera, al colloquio con se stessi. Vorrei che sulla mia tomba scrivessero che ho cercato di salvare la bellezza, questa è l’unica cosa che mi interessa». Non è un’affermazione pomposa. Dietro alla sua scrivania, ci sono le fotografie dei lavori in corso al duomo di Norcia, distrutto dal terremoto del 2016 e che Cucinelli sta aiutando a ristrutturare.