La mia speranza non si chiama BeyoncŽ
Secondo il regista Spike Lee, l’America di oggi è la più razzista di sempre. Questo perché, ci spiega a Venezia dove ha promosso il suo film sul Ku Klux Klan, razzisti e suprematisti sono diventati una parte del sistema, e hanno aiutato Trump a diventare
Se è vero che ognuno di noi combatte almeno un fantasma nella propria vita, quello di Spike Lee ha le sembianze del «padre del cinema americano» David Wark Griffith e deve essere piuttosto ingombrante. L’origine della rabbia verso il maestro non ha una data precisa, ma coincide purtroppo con l’inizio della sua passione per il cinema. La ragione, invece, è molto chiara: il regista e produttore afroamericano non ha mai perdonato a Griffith il suo capolavoro di modernità: The Birth of a Nation. Riepilogo della trama per gli smemorati: il film – datato 1915 – racconta la storia della Guerra civile americana dal punto di vista dei bianchi, strizzando l’occhio ai terroristi bianchi del Ku Klux Klan, che vengono rappresentati come un gruppo di coraggiosi che volevano riportare l’ordine nel Sud devastato da schiavi neri liberati. Ora, minare il successo imperituro di The Birth of a Nation – primo film proiettato alla Casa Bianca, record di incassi per vent’anni – è da sempre un’ossessione per il regista di Brooklyn che da quattro decenni descrive meglio di chiunque altro la comunità afroamericana: da studente della New York University rischiò l’espulsione a causa di un cortometraggio che narrava di un regista nero assunto per realizzare un remake di film di Griffith. La reazione accademica fu feroce: quel ragazzetto afroamericano appassionato di fantascienza osava sfidare il padre del cinema, l’uomo che con le sue tecniche innovative aveva portato il cinema nel futuro. «Non sono uno di quelli che ti dicono che il suo film non andrebbe proiettato nei cinema o nelle scuole. Ma tutte le volte che sento o leggo che Griffith è il padre del cinema americano, rispondo che allora significa che il padre del cinema americano è un razzista!», mi dice seduto su un divanetto dell’hotel Excelsior di Venezia, prima di intervenire alla masterclass sul futuro del cinema organizzato da Mastercard, dove si unirà a David Cronenberg nella difesa di Netflix come forza di «democratizzazione» del cinema. Fuori ci sono centinaia di ragazzi in fila che aspettano di ascoltarlo, ma sul divano siamo sempre agli inizi del Novecento.
Il fantasma di Griffith è presente anche nel suo nuovo film BlacKkKlansman, la storia – ambientata negli anni Settanta – di Ron Stallworth, il primo poliziotto afroamericano che riesce a infiltrarsi nel Ku Klux Klan. A capo dell’organizzazione c’è il giovanissimo suprematista bianco David Duke, interpretato nel film da Topher Grace. Il «vero» Duke – che nella sua lunga carriera politica è stato anche deputato al Parlamento statale della Louisiana – con l’elezione di Donald Trump sta vivendo una nuova popolarità: i gruppi che si ispirano fieramente al KKK negli Stati Uniti sono oggi circa un centinaio, mentre – stando ai dati dell’Anti-Defamation League’s Center on Extremism – il numero di omicidi per mano di suprematisti bianchi è raddoppiato nel 2017, superando quelli legati all’estremismo islamico. Subito dopo aver visto il trailer di BlacKkKlansman, racconta Lee, David Duke ha telefonato a Stallworth, preoccupato di essere dipinto come un «ridicolo, pittoresco idiota» nel film. I suoi timori erano fondati. Invece di descrivere Duke e il KKK come un gruppo di feroci assassini, Lee sceglie di ridicolizzarli: «Il fatto che siano degli idioti, non significa che non sono pericolosi», spiega, «anzi: in genere le persone sceme possono essere dei mostri. Una cosa non esclude l’altra».
L’era in cui razzisti e suprematisti bianchi erano riconoscibili grazie ai cappucci bianchi e strani simboli indecifrabili è finita. Negli ultimi anni – fomentati da un presidente che li ha usati per raggiungere la Casa Bianca – sono più istituzionalizzati di quello che sembra: non operano più per sovvertire il sistema, sono (diventati) il sistema. Utilizzano Internet, tagliano la barba alla moda, lavorano nei colossi della Silicon Valley come nelle case di moda. Soprattutto, credono di essere oggetto di maltrattamenti nel Paese ostaggio delle minoranze. Secondo i numeri della rivista Economist, il 56% degli americani bianchi pensa che sia in atto una discriminazione contro le persone bianche negli Stati Uniti. «Tra un po’ i bianchi saranno la minoranza», dice Spike, «in alcuni Stati già succede. Ma questo non vuol dire che verranno cacciati via dal loro Paese. Cosa diavolo immaginano? Che arriveremo dicendo: “Ehi indiani d’America, riprendetevi le vostre terre da questi bastardi!”. Se i bianchi smettono di essere la maggioranza è una buona notizia! Vuol dire avere un Paese strutturalmente più inclusivo, più diverso. È amore, non è odio!». Lee è convinto che l’America degli anni Duemila sia più razzista di quella raccontata nei suoi film precedenti – da Lola Darling a Bamboozled – e nonostante i 60 anni lo rendano più saggio che incazzato, promette: «Proverò sempre rabbia contro razzismo, omofobia, sessismo. Il problema è che una persona
«Non possiamo pensare che visto che ci sono Beyoncé, Jay-Z, Rihanna e i magazine di moda allora va tutto bene. Quello che è cambiato è solo che, mentre prima ci ghettizzavano, ora tutti adorano il nostro stile» Dimostranti in marcia nel 2016, nel centro di Londra, contro l’uccisione di alcuni uomini di colore da parte della polizia americana.
che ben rappresenta tutte queste cose ora siede alla Casa Bianca» (non chiama mai per nome Donald Trump, ma usa l’espressione Agente Orange). La fotografia del Paese è quella di una nazione lacerata da questioni identitarie, divisioni etniche e culturali, gruppi di odio che si manifestano online come nelle piazze; troppo lontana dal sogno unitario di Martin Luther King Jr, convinto che l’idea di un’America di tutti i colori e di tutte le razze fosse più forte di qualsiasi rivendicazione. Come ha scritto la saggista e docente di Yale Amy Chua nel suo nuovo interessante libro, Political Tribes: Group Instinct and the Fate of Nations (Penguin Books), negli Stati Uniti del 2018 è il tribalismo a farla da sovrano: «La nuova esclusività», scrive Chua, «si fonda sull’idea che persone esterne alla comunità non possano condividere la conoscenza di nozioni e valori che appartengono alla comunità stessa (“non puoi capire X perché sei bianco”, “non puoi capire Y perché non sei donna” o “non puoi parlare di Z perché non sei queer”). L’idea di appropriazione culturale è più forte di tutto il resto. Ci sono simboli, tradizioni, patrimoni di un gruppo che le persone fuori dal gruppo non hanno diritto di avere». Eppure, se è vero che i crimini di odio sono in continuo aumento e le vittime privilegiate restano gli afroamericani, mai come oggi la cultura black viene consacrata e «rivisitata» dalle istituzioni della cultura e dello stile. Louis Vuitton ha recentemente assunto come direttore creativo l’outsider della moda Virgil Abloh, trentottenne americano di genitori ghanesi, ex collaboratore di Kanye West molto attivo per la causa afroamericana; la maison Gucci ha iniziato una collaborazione con Dapper Dan, lo storico sarto di Harlem, considerato tra i fondatori dello stile hip-hop afroamericano diventato oggi mainstream. Beyoncé, chiamata a curare un intero numero di Vogue America, ha scelto di farsi fotografare dal ventitreenne Tyler Mitchell, diventato così – grazie a un gesto più politico che stilistico della popstar – il primo afroamericano a scattare una foto di copertina della rivista di moda. «Non possiamo pensare che visto che ci sono Beyoncé, Jay-Z, Rihanna e i magazine della moda vuol dire che le cose vanno bene. È ancora molto bassa la percentuale di afroamericani che riescono a ottenere quel tipo di notorietà e successo. Quello che è cambiato è che, mentre prima ci ghettizzavano, adesso tutti adorano il nostro stile». Non è il clamore delle copertine a rendere ottimista Lee, quanto sapere che esiste una nuova generazione sommersa di artisti, registi e creativi afroamericani: «Stanno scuotendo le persone con i loro lavori, a volte scioccanti, a volte no. Vederli lavorare mi rende pieno di speranza per il futuro del mio Paese». Non è solo il mondo delle arti a portare avanti un cambiamento: «Nell’area democratica c’è una sete incredibile di candidati nuovi e freschi, diversi, inclusivi, aggressivi». Tra questi, Lee ha già scelto la sua: la ventinovenne «socialista» Alexandria Ocasio-Cortez, che il regista chiama spesso durante la nostra conversazione – quasi a volerla invocare – «My Sister for Queens!». «Lei è fantastica e io la sostengo attivamente, ci parliamo spesso e sono sicuro che con lei potremmo farcela». Secondo Lee, Ocasio-Cortez non è un caso isolato, ma fa parte di un movimento di rinascita all’interno del Paese: «L’afroamericano Andrew Gillum ha vinto le primarie nella corsa a governatore della Florida polverizzando una rappresentante del ricco establishment democratico (la deputata Gwen Graham, ndr), e anche la sorella Stacey Abrams potrebbe diventare governatrice della Georgia. E questo sta succedendo al Sud, capisce la rivoluzione?». È in questi nuovi, e molto spesso giovanissimi, volti che si nasconde la speranza per la politica americana: «Hai bisogno di nuovo sangue, nuova linfa, nuove idee, pensieri, persone. Se non c’è un’infusione di giovinezza, si muore». Detto da Spike Lee, l’eterno ragazzo del cinema, mentre si aggiusta il cappellino degli Yankees, fa ancora più effetto.
«Nel 2018 in America è il tribalismo a farla da sovrano. Ci sono simboli, tradizioni, patrimoni di un gruppo che le persone che ne sono fuori non hanno diritto di avere» La protesta contro l’uccisione di Alton Sterling, un uomo che vendeva cd davanti a un emporio, nel luglio 2016 a Baton Rouge, in Louisiana.