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È una delle top model entrate nel pantheon delle leggende, eppure Gisele Bündchen ha deciso che non poteva chiudersi soltanto in quel ruolo. Oggi, oltre a lavorare e fare la mamma, è in prima linea nell’impegno per l’ambiente
«Nel mondo della moda mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Finito il lavoro, volevo solo tornarmene a casa»
Sotto un cupo cielo del New England agitato da pioggia e vento, mi trovo ad attraversare un campo alla ricerca di Gisele Bündchen. Trovo così difficile immaginare Gisele da queste parti, e invece eccola, il corpo slanciato ed espressivo che si muove rapido nel granaio di legno che lei chiama «il rifugio», perché lo considera esattamente questo: un luogo dove ritirarsi a meditare e lavorare, in cima alla breve salita, spesso fangosa, che lo separa dalla grande villa in mattoni dove vive con il marito Tom Brady, quarterback dei New England Patriots, e i loro due figli. «Perché vivo qui? Per amore», dice Gisele. «Amo mio marito. I bambini sono nati in Massachusetts, nel nostro vecchio appartamento di Beacon Street. Sono dei piccoli bostoniani e adorano questo clima. Ma è inutile che lo neghi: il freddo non fa per me. Sono brasiliana, preferirei vivere scalza in una capanna nel cuore della foresta». Nessun’altra modella nella storia ha avuto più successo di lei, eppure Gisele ha scelto di non rinchiudersi in quel mondo. A differenza di una Kate Moss o di una Naomi Campbell, non veleggia nell’eterno party itinerante della moda con una coppa di champagne in mano. Né ha scelto di ritirarsi nel pantheon delle leggende, anche se ha compiuto da poco 38 anni. Come modella è più che mai in attività, ed è riuscita a mantenere la sua posizione in un settore che ha un debole per tutto ciò che è nuovo. Lo ha fatto proteggendo con cura il suo celebre strumento di lavoro (non a caso è
«LA GENTE DIMENTICA CHE, SE NON È SANO L’AMBIENTE, NON POSSONO ESSERLO GLI ESSERI UMANI»
sposata con un uomo noto per la rigorosa autodisciplina), e conservando una fama di professionalità che, a differenza di altre leggende, l’ha resa amatissima dai fotografi. Ma a Gisele il glamour non interessa, né – ci tiene a sottolinearlo – mai le è interessato. Immaginava un futuro al di là della moda già a quattordici anni, quando fu scoperta e di colpo si ritrovò a vivere in Giappone, con una grossa valigia di libri scolastici e uno zainetto in cui pigiare tutti i vestiti. «Io non sono una modella», ribadisce. «Quello è un lavoro, una parte della mia carriera. Mi ha permesso di vedere il mondo e di guadagnare bene, ma non mi ci sono mai identificata». Ci accomodiamo su un divano bianco, sotto le alte travi del granaio. Nel camino siede un Buddha con un cristallo tra le mani. La più giovane delle sorelle di Gisele, Fafi, che è anche la sua assistente personale, sta preparando il tè con una miscela chiamata «Amore». Gisele indossa jeans, golfino di cashmere grigio con los collo a Ve un paio di spessi calzettoni di lana. Gli avambracci sono ricoperti da un fitto intrico di henné, souvenir di un recente viaggio nel Qatar. Parla molto d’amore («è la mia religione»), di energia («tutto è energia, no?») e di vibrazioni («vivere è come sintonizzare una radio»). Non a caso è un’icona di quella che la comunità New Age chiama «high-vibe life»: chi la pratica sostiene che innalzando il livello delle proprie vibrazioni – con la dieta, lo yoga, la meditazione e un atteggiamento riconoscente, positivo e privo di pregiudizi – sia possibile vivere la vita dei propri sogni.
Chi pensa che queste siano solo sciocchezze da fricchettoni rischia di non cogliere lo slancio con cui Gisele ha intrapreso il suo secondo mestiere: proteggere il pianeta Terra. Negli ultimi anni ha prestato la sua voce, il suo tempo, la sua immagine, il suo denaro e la sua vasta rete globale di contatti a una quantità di cause ambientaliste. Ha piantato alberi a Kibera, una baraccopoli di Nairobi che è anche la più grande dell’Africa. Ha contribuito a bonificare il fiume vicino a Horizontina, il piccolo centro in cui è cresciuta, con il Projeto Água Limpa, un’organizzazione che si batte per la difesa delle acque fondata insieme alla sua famiglia. È apparsa in Years of Living Dangerously, documentari del National Geographic per la quale si è addentrata nella giungla brasiliana, indagando sul legame tra deforestazione e cambiamento climatico. Dal 2009 è ambasciatrice del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, e lo scorso settembre Emmanuel Macron l’ha invitata a parlare davanti ai leader di tutto il mondo di inquinamento delle risorse idriche planetarie. La Harvard Medical School l’ha insignita del prestigioso premio ambientalista Global Environmental Citizen. E da qualche tempo cerca di rendere l’industria della moda più consapevole del suo pesante impatto ambientale. «Di segnali che non si possa proseguire in questa direzione ne abbiamo a sufficienza», dice, e quando si appassiona ai suoi argomenti agli angoli degli occhi le spuntano due lacrime. «La gente dimentica che, se non è sano l’ambiente, non possono esserlo neppure gli esseri umani, perché fino a prova contraria la nostra vita dipende dalla salute del pianeta, punto e basta. La Terra se la caverà in ogni caso. Quando noi non ci saremo più, troverà il
modo di rigenerarsi. Siamo noi a doverci preoccupare di come sopravvivere mentre ci ospita. Come possiamo ridurre al massimo il nostro impatto?». La percezione di una realtà nella quale tutto è interconnesso sembra risalire alla sua infanzia. Con cinque sorelle, di cui una gemella, Gisele ha cominciato a condividere quand’era ancora nell’utero. «Vengo da una famiglia della classe media», padre professore di sociologia, madre impiegata di banca, «dove tutti dovevano dare il loro contributo». A cominciare dai lavori di casa: «Una sorella pulisce il bagno, l’altra la cucina. Ecco perché non è stato un problema che me ne andassi di casa a quattordici anni: sapevo già badare a me stessa». A quindici leggeva i libri di Lao Tzu e del maestro zen contemporaneo Thích Nhât Hanh. A sedici viveva a New York, in un appartamento per fotomodelle con i letti a castello e quattro ragazze per stanza. «Osservavo il caos che avevo intorno, ma senza avvicinarmi troppo», ricorda. «Droga, ragazze che andavano e venivano. Alcune ce la facevano, altre finivano sulla cattiva strada e tornavano a casa. Io non sono mai stata una festaiola. Non puoi leggere Lao Tzu e fare vita notturna. L’ambiente in cui mi muovevo non rispecchiava le cose che mi stavano a cuore. Mi chiedevo: “Che cosa ci facciamo su questo puntino azzurro sospeso nello spazio?”. Sono sempre stata una persona curiosa, e mi sono sempre fatta grandi domande. Cos’altro esiste? Non può essere tutto qui».
Adetta di molti, per Gisele la svolta arriva a 17 anni, quando Alexander McQueen la sceglie per la sfilata primavera/estate del 1998, avvolgendole il busto in un semplice velo di vernice bianca e ribattezzandola «il Corpo». Nel giro di qualche mese è una star della moda. La sua prima copertina di Vogue America, nel luglio del 1999, annuncia il ritorno della modella sexy (ed è la prima delle tre copertine che Vogue le dedicherà solo quell’anno). Durante le fashion week della primavera 2000 apre le sfilate di Marc Jacobs, Michael Kors, Dolce & Gabbana e Christian Dior. Ma nonostante gli stilisti facciano la fila per averla nelle loro campagne, lei rifugge l’attenzione. «Sono del Cancro», spiega, «un granchietto che ama la casa, il suo rifugio, e tutto ciò che è intimo e raccolto. Nel mondo della moda mi sentivo un
pesce fuor d’acqua. Una volta finito il lavoro, volevo solo tornarmene a casa». Nel 2002 vive un’esperienza che trasformerà per sempre il suo rapporto con la moda. Durante la sfilata di Victoria’s Secret, alcuni attivisti della People for the Ethical Treatment of Animals (Peta) invadono la passerella sventolando cartelli con la scritta GISELE: CAROGNA IN PELLICCIA. È una reazione alla recente notizia del suo contratto con il marchio di pellicce Blackglama. «Di colpo ho avuto una rivelazione», ricorda lei. «Stavo correndo come un criceto nella ruota: andavo lì e da brava bambina facevo tutto quel che mi diceva l’agente. Ma in realtà cosa ne sapevo? Fu uno shock, e mi fece fermare di colpo. Cominciarono a mandarmi dei video. Io non avevo idea di ciò che c’era dietro, e rimasi sconvolta. Così dissi: “No, io la pubblicità delle pellicce non la faccio”. Presi finalmente in mano la situazione. Ogni tanto l’universo viene a bussare e ti dice: “Ciao, c’è questa cosa su cui forse dovresti riflettere”. Bisogna assumersi la responsabilità delle scelte che si fanno».
AGisele interessano gli stilisti che cominciano a usare tessuti ricavati da materie prime come le alghe, la canapa e il bambù. È un’accesa sostenitrice di Stella McCartney, che ha fatto della tutela dell’ambiente e del benessere umano due pilastri del suo business. Lo scorso maggio, al Met Ball, Gisele – una delle protagoniste della campagna primaverile di Versace – ha presentato a Donatella Versace la sua amica Livia Giuggioli Firth, portabandiera della moda ecosostenibile, che ha aiutato la maison a creare un abito in seta biologica tinta con procedure rispettose dell’ambiente. A casa, nel frattempo, Gisele si è data l’obiettivo di insegnare ai figli (Ben, otto anni, e Vivian, cinque) a fare giardinaggio, perché imparino il piacere di veder crescere le cose nella giusta stagione, e per instillargli quella pazienza che la cultura digitale insidia da ogni lato. Fanno il compost. Hanno le api. E Gisele ha addestrato a dovere anche il marito Tom che adesso, per non riempire la spazzatura di bottiglie di plastica, insaporisce l’acqua con una tintura di limone. E quando sgarra i figli lo riprendono. «Sono due piccoli guardiani. Chi ha una vita privilegiata deve impegnarsi il doppio. Ai tuoi figli vorresti dare quanto più possibile perché gli vuoi bene, ma è davvero nel loro interesse? Coltivando insieme il giardino, capiscono che va nutrito a poco a poco, partendo da semi minuscoli. Poi di colpo arriva una gelata, la pianta muore. E adesso? Adesso si ricomincia, ci si inventa un altro modo. La natura è la più straordinaria delle maestre. Ti insegna sempre come adattarti».
Gisele è poco incline a usare i social media. Il suo account Instagram è stato creato dalla sorella minore, che ogni tanto le ricorda di pubblicare un selfie per i fan. «Fosse per me, ci sarebbero solo foto di tramonti», dice. «Se fossi costretta a farmi promozione come le modelle di oggi, lascerei perdere. Non ce la farei». Eppure, di perle di saggezza da raccogliere per i suoi ammiratori più giovani ne ha diverse. Il suo primo libro, Lessons: My Path to a Meaningful Life, uscirà a ottobre. Pur non essendo un’autobiografia, racconta il suo «cammino di ricerca interiore» per arrivare a conoscersi meglio e individuare lo scopo della sua vita. La prefazione è del fotografo Steven Meisel, a cui Gisele riconosce il merito di averle insegnato il mestiere di modella. I Bündchen-Brady dividono il loro tempo fra varie case: Brookline, nel Massachusetts, New York, Montana e Costa Rica. Ed è proprio in Costa Rica che Gisele può concedersi lo stile di vita in cui più ci piace immaginarla: scalza e in bikini. Pur amando molto il Brasile, è troppo riconoscibile per frequentare le spiagge del suo Paese, motivo per cui ha scelto il Costa Rica come meta per riunirsi con la famiglia: ogni anno, a luglio, i genitori e le sorelle la raggiungono per festeggiare il suo compleanno e concedersi qualche giorno di surf, passeggiate a cavallo e yoga. In Massachusetts, dove Tom Brady è senza dubbio l’abitante più famoso dello Stato, la coppia conduce una vita estremamente riservata. Gisele non frequenta le mogli degli altri giocatori. «Mio marito ha quarant’anni e la maggior parte dei suoi compagni di squadra ne ha venti. Calcolando che le loro fidanzate ne avranno diciannove, direi che abbiamo interessi diversi», riflette ridendo. «Ogni domenica vado a vedere la partita con i bambini, per far sentire a Tom la nostra presenza, e le mie conoscenze in materia di football si fermano lì». Ha alcune amiche fra le madri dei compagni dei figli, e a scuola ha contribuito a creare un programma di meditazione (lei stessa medita quasi quotidianamente da quando aveva vent’anni). Difficilmente la si vede indossare qualcosa di diverso dalla sua uniforme, composta da jeans e maglietta. «È che non sono una tipa da lustrini», dice. Ovviamente conserva alcuni dei suoi capi preferiti, collezionati nel corso degli anni: un paio di jeans Vince a cui è affezionatissima, tra i primi modelli del brand e ormai pieni di buchi; un giubbotto di pelle Balenciaga che possiede da quando aveva diciassette anni, e che oggi le scivola sulle braccia con la morbidezza di una coperta. Gli stilisti le spediscono cose nuove in continuazione, che però lei gira direttamente alle sorelle. «La gente pensa che accumulare sia un bisogno, ma non è così. Il principio da cui partire è molto semplice: ti svegli al mattino e ti chiedi: “Cos’è che mi permette di vivere?”. Una domanda semplicissima. L’aria che respiro, la terra su cui cammino, il cibo che mangio, l’acqua che bevo, il sole che mi rende felice. Quando riusciremo a capire che la nostra sopravvivenza dipende dalla Terra, e ad apprezzare davvero tutti questi doni, allora forse saremo in grado di prendercene cura. Quella della moda è un’industria da mille miliardi di dollari. I mezzi non ci mancano. Basta volerlo».
«BISOGNEREBBE PARTIRE DA UNA SEMPLICE DOMANDA: COSA MI PERMETTE DI VIVERE?»