MARLON BRANDO
Darei ai miei figli i superpoteri. Perché sono stato un campione. Ma non come padre
LA FAMA, HOLLYWOOD E I RIMPIANTI DI UN PADRE IMPERFETTO
Star, sex symbol, icona, Marlon Brando (1924 2004) rinasce più volte. Dopo il grande successo iniziale, il declino: nessuno lo vuole più, tranne Francis Ford Coppola che deve lottare contro la Major per scritturarlo nel Padrino. Vince. E vince anche Marlon: l’Oscar come miglior attore che rifiuta in nome dei nativi americani. Seguono successi, e altri successi ancora. Potrebbe durare all’infinito, se non fosse che a un certo punto Brando decide di distruggersi da solo. Lentamente, sotto gli occhi di tutti. Un disfacimento dedicato ai nemici, qualcuno dice ai figli, suoi principali avversari (in particolare due sugli undici riconosciuti). Falso. Quelli per Brando erano spettri, derivazioni del nemico più accanito: se stesso. «Potevo diventare un campione. Potevo diventare qualcuno, invece di niente, come sono adesso» è una delle sue battute più celebri del Selvaggio. Parole che andrebbero bene anche per Marlon Brando fuori dal set? Il contrario. Nella vita sono stato un campione, sono stato qualcuno, e invece sarei potuto essere niente. Quante volte ha desiderato non essere Marlon Brando? Spesso. Come attore, come uomo, ma soprattutto come padre. Se i suoi figli non fossero stati figli di Marlon Brando, le cose sarebbero andate diversamente? (il figlio Christian uccide il fidanzato della sorellastra, Cheyenne. Anni dopo Cheyenne si suicida, e Christian muore di polmonite, ndr). Sarebbe stato tutto diverso. E io, come è naturale, sarei morto prima di loro. Il suo punto debole? Cheyenne. Perché? La prima figlia femmina, qualcosa di unico e speciale. Io stesso ne ero stupefatto ogni giorno, incantato da quella bambina che cresceva. Quando poi sono arrivate le altre figlie, lei ne ha sofferto molto. Si sentiva sostituita. Lo era? Se avesse deciso di vivere oltre i suoi venticinque anni, avrebbe capito che nessuno l’avrebbe potuta sostituire. La bellezza? Inutile. Non nel caso di Cheyenne, per la quale, dopo l’incidente (d’auto, nel 1989, dove si ruppe la mascella e si ferì sotto l’occhio, ndr), lei ha dichiarato: «Spenderò miliardi, ma la farò bella come prima». Non era questione di bellezza. Io la rivolevo come prima. La deturpazione era il segno del mio fallimento: non ero stato capace di conservare la bambina magnifica. Eppure sua figlia, verso la fine della vita, arrivò a dichiarare: «Quando ero un po’ più grande mio padre mi toccava sovente il petto o mi faceva, sul mio letto, dei massaggi come se volesse che io mimassi per lui i gesti di una che fa l’amore». Era arrabbiata. Sentiva che la colpa di tutto, morti e violenze, fosse la mia. A quel punto anche i ricordi si deformavano per confermare questa tesi. E lei? Non potevo convincerla del contrario. Incolpare me è stata la sua salvezza per un po’. Per pochissimo, in realtà. Cosa ha significato interpretare il padre di Superman? Nella vita reale nessuno dei miei figli è stato un supereroe, neanche un essere umano abbastanza forte. Tutte creature fragilissime. Se avessi potuto, avrei dato loro i superpoteri. Quali? A Cheyenne, per esempio: viaggiare nel tempo. Per riportarla qui? Per ritrovarsi.