Vanity Fair (Italy)

NADIA, ALLA VOCE PREMIO NOBEL

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—Era estate. Andava tutto bene. Poi sono arrivati loro. Ed è finito tutto

N adia Murad – che venerdì 5 ottobre è stata insignita del Nobel per la Pace a 25 anni – è una donna molto coraggiosa. Anche se non parlasse, quel che ha vissuto le si leggerebbe negli occhi, che sono sempre tristi e troppo stanchi, gli occhi di chi ha visto qualcosa di molto brutto che non si può assolutame­nte dimenticar­e. Ma Nadia parla, parla, parla e racconta cose che non vorremmo ascoltare e che invece dobbiamo ascoltare con molta attenzione. Racconta che l’estate dei suoi ventun anni, mentre lavorava in campagna con la famiglia, una squadra dell’Isis arrivò a Kocho, nel nord dell’Iraq, e uccise tutti gli uomini del paese e molti bambini tra i quali sei suoi fratelli, e dopo rapì tutte le donne per farne schiave sessuali. Nadia racconta. Della prima volta che l’hanno portata in una stanza piena di soldati fino a quando non è svenuta. Della prima volta che ha cercato di scappare e per punizione l’hanno stuprata in sei contempora­neamente. Dell’uomo gigantesco che l’ha comprata per primo e poi l’ha rivenduta. Delle sue compagne, amiche, sorelle, ancora prigionier­e degli stupratori. Racconta della famiglia musulmana che l’ha nascosta per diciassett­e giorni l’ultima volta che ha provato a fuggire, e che così l’ha salvata, grazie al velo integrale che l’ha coperta e ai documenti falsi che questa famiglia di brave persone sconosciut­e le ha procurato. Grazie a loro da Mosul Nadia è riuscita ad arrivare in Germania. Lei e le sue compagne erano state rapite durante la grande offensiva dello Stato Islamico a Sinjar: gli stupri e gli altri abusi compiuti dai miliziani sono ampiamente documentat­i da diverse inchieste giornalist­iche – tra le quali una molto importante del New York Times che racconta come lo stupro sia un metodo estremamen­te preciso teorizzato e poi messo in atto dall’Isis per distrugger­e la minoranza yazida, alla quale appartiene Nadia Murad. Due anni fa, quando Nadia ha vinto il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, il più importante riconoscim­ento per i diritti umani in Europa assegnato dal Parlamento europeo, noi di Vanity Fair l’avevamo intervista­ta e anche allora ci aveva raccontato tutto. Terminando il suo racconto con parole semplici che ti facevano gelare il sangue: «Era estate. Andava tutto bene. Poi sono arrivati loro. Ed è finito tutto». Dopo però aveva anche detto: «Solo una volta arrivata in Europa mi sono sentita in salvo, perché solo in Europa ho trovato ascolto. Nessuno prima me lo aveva voluto dare». Ecco, ogni tanto dovremmo ricordare che tutto ciò che diamo per scontato – il rispetto per le minoranze, uno stato di diritto, la forza che ci dà essere europei – in troppi luoghi del mondo non lo è per niente, e che è un privilegio da difendere invece di metterlo in discussion­e, per noi e per chi non ce l’ha.

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