Via da THE BEACH
La riconoscete? È proprio lei, la spiaggia thailandese dove Leonardo DiCaprio ci ha fatto sognare nel film più turchese dai tempi di Laguna blu. E se al cinema il paradiso finiva in inferno, la realtà non è da meno: con 10 mila turisti al giorno e l’80% del corallo distrutto, la famosa baia è stata chiusa per danno ambientale. Ma non è detto che questo la salverà
N on sono bastati i quattro mesi di chiusura totale, in vigore a titolo sperimentale da giugno a settembre scorsi. L’illusione è svanita. «Ci vorranno anni, forse anche un decennio, prima che possa ricostituirsi l’ecosistema naturale che è stato distrutto da un flusso turistico ormai fuori controllo», ha spiegato Songtham Suksawang, direttore dell’Ufficio thailandese dei parchi nazionali. «Il livello di devastazione è profondo, riguarda sia la barriera corallina e ogni altra forma di vita marina, sia la foresta di mangrovie, sia la stessa spiaggia, gravemente erosa». Così, di fronte all’emergenza, le autorità di Bangkok hanno deciso il blocco totale, «a tempo indeterminato», di ogni accesso alla celebre Maya Bay, la baia idilliaca dove Danny Boyle ha ambientato il film The Beach con Leonardo DiCaprio. Niente più speedboat con motori da mille cavalli che frantumano i coralli. Niente più folle di visitatori che, come ammette il capo del Dipartimento per le risorse marine e costiere Watcharin Na Thalang, «vengono qui in gruppi organizzati a passare mediamente un paio d’ore, nuotando, facendo snorkeling, dando da mangiare qualsiasi cosa ai pochi pesci rimasti e lasciandosi dietro una scia di rifiuti». E pensare che un paradiso naturale Maya Bay lo è davvero: un anfiteatro di acque turchesi chiuso da una corona di sabbia bianca su cui incombono impressionanti pareti verticali di roccia ricoperte di foresta tropicale. Ma dal 2000, quando è uscito nelle
sale cinematografiche, The Beach ha innescato un processo di attrazione turistica poi cresciuto in modo esponenziale anno dopo anno. Tanto che la scorsa alta stagione, da novembre a febbraio, sono stati registrati fra i 5 e i6 mila arrivi quotidiani. Ogni giorno, già a metà mattina, la baia si trasforma in un gigantesco parcheggio di motoscafi e la spiaggia assomiglia alle tribune di uno stadio gremito, con migliaia di persone in piedi, senza neanche lo spazio per stendersi al sole. Quel che resta a fine giornata, quando tutti se ne vanno, è uno specchio d’acqua invaso da sacchetti di plastica che, come strane meduse bianche, fluttuano fra bottiglie vuote, flaconi di crema solare, pannolini e chiazze di petrolio. Con le scimmie che scendono dalla foresta per accaparrarsi gli avanzi di hamburger e patatine fritte. «I controlli sono quasi inesistenti, affidati ad appena una decina di addetti dell’amministrazione locale», ammette uno dei più autorevoli scienziati marini thailandesi, Thon Thamrongna wasawatt, esponente del Comitato strategico per lo sviluppo ambientale. Ora è tutto finito. «Siamo arrivati a un punto di non ritorno», dice Thon, «non c’erano alternative al blocco degli accessi. Anzi, l’ideale sarebbe una chiusura permanente. Uno stop per sempre». Ma Maya Bay, gemma preziosa sull’isola di Phi Phi Leh, rappresenta solo una piccola porzione di un arcipelago che si trova alle prese con gli stessi problemi, se non più gravi, di sovraffollamento turistico. A Phi Phi Don, l’isola maggiore e l’unica abitata, migliaia di giovani backpackers da tutto il mondo, dall’Europa come dall’America, arrivano qui anche loro attirati dalle suggestioni del film di Boyle e vanno a riempire illabirinto di alberghi e guesthouse, bar, ristoranti, negozi costruiti senza alcun criterio dopo lo tsunami del 2004, quando il 75% di tutte le strutture fu spazzato via dal mare.
Le loro giornate passano fra spiagge, immersioni, bar e “tattoo parlour” aspettando i party pomeridiani nella piscina dell’Ibiza Club e le nottate sulla baia di Loh Dalum a ballare con la musica house a tutto volume e gli immancabili «bucket», «secchielli» colmi di bevande energetiche e alcol con cui tirare l’alba. E non basta. La minaccia più grave, più ancora di quella rappresentata dal popolo dei millennials globali, viene dal boom del turismo asiatico esploso in questi ultimi anni, con il moltiplicarsi di famiglie e gruppi organizzati, prevalentemente cinesi, indiani e coreani, che dalle vicine località di vacanza come Phuket, Krabi o Koh Lanta partono su motoscafi e yacht iperveloci per un mordi e fuggi a Phi Phi. Qualcuno si ferma un paio di giorni, la maggior parte appena qualche ora. Un’invasione incontrollata. Il risultato è che, soprattutto in alta stagione, a Phi Phi Don sbarcano ogni giorno fra le 10 mila e le 20 mila persone: un numero insostenibile per un’isola di appena 10 chilometri quadrati, con meno di 3 mila abitanti. Tanto più che non esiste rete fognaria, né un decente impianto di smaltimento dei rifiuti. E quasi tutti gli alberghi e i ristoranti sono privi di sistemi di depurazione delle acque. Tutto finisce dove capita. Così, sulle rive delle baie gemelle di Loh Dalum e Tonsai il turchese del mare si ricopre ogni sera di una patina di schiuma biancastra su cui galleggiano gli scarichi, organici e chimici, di un’umanità impazzita. E tutte le mattine dal molo di Tonsai salpa una nave: trasporta, a seconda delle stagioni, tra le 25 e le 40 tonnellate di rifiuti solidi verso l’inceneritore di Ao Nang o di altre città sulla costa thailandese. Ma non basta. A Phi Phi Don la spazzatura viene sparsa dappertutto. E a niente sono valsi finora gli appelli delle organizzazioni ambientaliste. «I maggiori responsabili non sono tanto i turisti quanto gli hotel e i ristoranti che li accolgono», sottolinea Thon, «per loro il profitto continua a venire prima della tutela del nostro patrimonio naturale». Così, la chiusura definitiva di Maya Bay rappresenta solo il primo passo, per radicale che sia, di un percorso che per il governo thailandese appare molto difficile da compiere, ostacolato com’è dalla forte opposizione delle lobby imprenditoriali e commerciali. L’accoglienza turistica rappresenta infatti il 12% dell’intero prodotto interno lordo del Paese. Non a caso finora gli interventi sono stati molto timidi. Nel maggio 2016 è stato chiuso temporaneamente l’accesso all’isola di Tachai, al largo delle costa meridionale del Paese, seguito poi da analoghi provvedimenti per altre tre isole, Koh Khai Nok, Koh Khai Nui e Koh Khai Nai, nelle acque attorno a Phuket. «Anche qui servirebbe uno stop a tempo indefinito», assicura Tunya Netithammakul, direttore generale del Dipartimento per i Parchi nazionali. Secondo il Comitato strategico per lo sviluppo ambientale, «quasi il 77% di tutte le barriere coralline entro i confini thailandesi è da considerare seriamente deteriorato, se non distrutto». Si tratta di un aumento del 30% rispetto a dieci anni fa. Ma il problema della devastazione ambientale dovuta al sovraffollamento turistico non riguarda ormai soltanto Bangkok. La lista dei paradisi da cartolina minacciati continua ad allungarsi in tutto il Sudest asiatico. Si va dalla baia di Boracay nelle Filippine, dichiarata off limits dal presidente Rodrigo Duterte lo scorso aprile, fino all’emergenza immondizia annunciata dal governo indonesiano per l’isola di Bali.