Vanity Fair (Italy)

FRATELLO, DOVE SEI?

- di SILVIA NUCINI

Il segreto del suo successo? Non avere mai avuto «bisogno» di scrivere. Siamo andati a trovare lo scrittore francese nel suo studio sulla Rive Gauche, dove ci ha raccontato della genesi del suo ultimo libro (in seguito a un grave lutto) e dei nuovi «capri espiatori» (ricordate la saga di Malaussène?) dei nostri giorni: i migranti

Lo studio di Daniel Pennac è una specie di scatola marrone e démodé con annesso cucinino, inondato, di tanto in tanto, da un profumo di croissant. «È il forno qui sotto», spiega, non si sa se assuefatto o indifferen­te a quell’odore così parigino. Non siamo a Belleville, il quartiere multietnic­o dove lo scrittore vive e dove ha ambientato tutta la saga di Malaussène, manell’ arr on disse mentdelleG rand es Écoles, Rive Gauche, «non lontano da casa, ma abbastanza lontano per poter tenere separata la vita dal lavoro». Un portatile Mac non proprio ultimo modello sta sdraiato sulla scrivania. «Ma questo libro no, non è nato qui, quanto piuttosto nei miei sogni: una mattina alle cinque mi sono svegliato e il libro era già tutto lì. Dovevo solo prendere il bus e venire a scriverlo». Daniel aveva un fratello, si chiamava Bernard. Era alto e magrissimo, ingegnere, marito, padre. È morto dieci anni fa, un caso di malasanità: una banale operazione alla prostata ha tolto dal mondo un uomo che al mondo ci stava quasi in punta di piedi, compatto, desideroso di non disperdere le energie, con pochissimi desideri essenziali, quelli della sopravvive­nza. Quando lui è morto, Pennac racconta di aver totalmente perso il controllo del proprio corpo: cadeva ovunque, si faceva male, si è fatto anche picchiare in una stazione del metrò. Voleva scrivere di lui, di quel fratello che era prediletto da tutta la famiglia, ma non c’è riuscito per dieci anni, fino a quel risveglio dell’alba, fino a quando ha capito che per parlare di Bernard poteva raccontare anche di Bartleby lo scrivano, un racconto di Melville – che lo scrittore ha portato in scena dopo la morte del fratello – in cui un notaio di New York assume un collaborat­ore che piano piano si sottrae a ogni richiesta, pronuncian­do sempre e solo una frase, «preferirei di no». Così è nato Mio fratello, il libro più intimo che Pennac abbia mai scritto. In che modo suo fratello Bernard assomiglia­va a uno scrivano di metà Ottocento? «Il loro legame ha a che fare con il desiderio. Bernard, come Bartleby, rifiutava i desideri stupidi. Il suo motto era: “Evitiamo di aggravare l’entropia”. Il personaggi­o di Melville smette di giocare il gioco sociale degli uomini, fino al punto di non fornire nessuna spiegazion­e dei suoi “preferirei di no”. Anche Bernard non dava spiegazion­i del suo modo essenziale di vivere, ma non per orgoglio, quanto piuttosto per non disperders­i in cose futili, nei commenti degli altri. Viviamo in una società in cui nulla si spiega e tutto si commenta. Mio fratello non commentava, non chiacchier­ava, ma era un uomo divertente, ci facevamo grandi risate insieme». Racconta che Bernard non è stato un uomo fortunato da un punto di vista sentimenta­le: la moglie non esce benissimo da queste pagine. A proposito, sa se ha letto il libro? «Non lo so, ma credo di sì. Io non esprimo mai un giudizio su di lei, mi limito a raccontare. Un episodio su tutti: sulla tomba di mio fratello le chiedo: “Mi dici una cosa bella di Bernard?”. E lei riesce a risponderm­i: “Non l’ho mai tradito”». Pensa che questa sua difficoltà affettiva avesse a che fare con il suo modo di essere, così asciutto? «Da giovane era stato respinto da una donna che amava e questa cosa l’ha segnato per tutta la vita. Mi ricordava il principe Myskin dell’Idiota di Dostoevski­j: un uomo sensibile al dolore che aveva intorno. Aveva una gravità metafisica e un senso molto forte dell’innocenza, quella dei bambini, dei folli, degli animali. Portava a casa cani e gatti trovati per strada, e li dava anche a me». Come l’ha fatta stare scrivere questo libro? «Mi sono sentito calmo, dopo, perché mi è sembrato di parlare con lui durante tutto il periodo della stesura, che comunque è stato breve». È la prima volta che sperimenta il valore curativo della scrittura? «In modo così diretto, sì. Però ogni mio libro mi ha guarito: scrivere è energetico e totalizzan­te». Ma anche faticoso, o no? «Faticosiss­imo. Mia moglie Minne mi dice sempre: quei libri ti manderanno all’ospedale. Io scrivo senza regole, quando mi pare. Nessuno per fortuna mi fa pressioni per pubblicare, così ho la libertà di finire i libri quando lo dico io». Quand’è che un libro è finito? «Non certo quando hai scritto la parola “fine”. Un libro è finito quando hai esaurito tutte le tematiche di cui ti volevi occupare: politiche, affettive, stilistich­e.

«VIVIAMO IN UNA SOCIETÀ IN CUI NULLA SI SPIEGA E TUTTO SI COMMENTA»

Un libro è finito quando tu hai finito con lui». Questa libertà di scrivere o non scrivere è una conquista che le è arrivata con il successo? «No no, mi deriva dal fatto che io non sono mai stato uno scrittore, ma un professore. Ho insegnato per trent’anni – dal 1969 al 1999 – e il mio lavoro era stare in classe con gli alunni. Non ho iniziato a scrivere per soldi – il mio stipendio mi consentiva una vita più che decorosa – ma per una necessità psicologic­a, forse patologica. Non ho mai scritto nemmeno per la fama, quella sempliceme­nte è arrivata, e ha sorpreso me per primo. Mi sono reso conto di essere diventato famoso quando la gente ha iniziato a salutarmi per strada: “Bonjour Monsieur Pennac”». Perché ha avuto questo straordina­rio successo in Italia? «Per una serie di motivi. Primo fra tutti Stefano Benni che mi ha presentato al meglio. Poi grazie alle traduzioni di Yasmina Mélaouah che, come tutti i grandi traduttori, è anche una brava scrittrice. E infine, credo, per questa idea di famiglia che si porta con sé Malaussène». Lei è sempre stato pubblicato da Feltrinell­i. Che ricordo conserva di Inge? «Quando ho saputo della sua morte, ho pianto. Lei era pura energia, e mi è sembrato strano che l’energia potesse finire, morire. Nella mia testa e nelle mie orecchie rimane il suono della sua risata. Nei miei ricordi quella sensazione bellissima di stupore che aveva sempre, anche dopo aver vissuto così tanto». La scuola pubblica è un ottimo punto di osservazio­ne sulla società. Che cosa ha visto da dietro la cattedra? «Nei miei trent’anni di insegnamen­to ho visto i ragazzi trasformar­si da alunni in clienti della società del consumo. Un ragazzino delle scuole medie decide di tutti i suoi consumi, esclusa solo la casa, perché vive ancora con mamma e papà. Questa trasformaz­ione ha reso difficile il lavoro degli insegnanti, trattati anche loro come prodotti di consumo». Lei ha lasciato che accadesse? «Ho cercato di contrastar­e questa tendenza sempliceme­nte essendoci, e lavorando con – non contro e non per – i ragazzi. Giocare, leggere, insegnare e imparare insieme, andare al cinema e a teatro insieme, fargli il regalo della curiosità intellettu­ale, questo ho fatto. Ho cercato di non far limai senti resoli: la cliente lizz azione si basa sull’ individual­ismo ». I cellulari non aiutano. «Perché nessuno dice ai ragazzi che questi cosi si possono spegnere. Io se sono con qualcuno a cui suona il cellulare, e si mette al telefono, me ne vado. Ma prima di ogni comportame­nto c’è una domanda che dobbiamo farci: come ci comportiam­o noi adulti? Quando siamo coi nostri figli siamo lì per davvero? Al cento per cento? O un terzo è lì e due terzi sul cellulare? Dobbiamo stare insieme, così insieme che solo un’inondazion­e può separarci, non certo una notifica di Facebook». Quando, a metà anni Ottanta, ha iniziato a raccontare Belleville e il suo miscuglio di razze, avrebbe immaginato il rigurgito razzista a cui stiamo assistendo? «A Belleville non è cambiato nulla, ma nella società sì. L’accettazio­ne dell’altro dovrebbe essere un valore morale, e invece è un valore economico. Accettiamo gli altri quando abbiamo bisogno di loro: a inizio Novecento i minatori polacchi erano i benvenuti nelle nostre miniere di carbone, la disoccupaz­ione arrivata negli anni Trenta li ha invece resi nemici. Il razzismo, l’odio per lo straniero, è sempre esistito, ma ha fluttuato nella Storia a seconda dei bisogni. Malaussène di profession­e fa il capro espiatorio, ed è lo stesso ruolo che hanno gli stranieri: se qualcosa delle nostre società non funziona, è colpa loro. Eppure avremmo potuto cambiare le cose». Come? «L’Europa ha fallito, perché ci siamo solo concentrat­i sugli aspetti economici, e non culturali. Se i nostri bambini avessero fatto le scuole nei diversi Paesi europei, parlato le lingue del nostro continente, non potrebbero aver paura dello straniero. Accettereb­bero l’incertezza che lo straniero porta con sé». La certezza è rassicuran­te. «La certezza è una casa chiusa. Lo scrittore è un fabbro che deve aprire quella porta».

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foto ERIC GARAULT
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