I Muse contro i droni
Secondo la teoria della simulazione, l’universo nel quale viviamo non è reale, ma è stato generato da una civiltà superiore che ci tiene sotto controllo usando dei super computer, esattamente come nella trilogia di Matrix. È il genere di idee che affascinano Matt Bellamy, immagini e concetti con i quali ha farcito Simulation Theory, l’ottavo album dei Muse in uscita il 9 novembre. Da tempo lo scopo della carriera del trio inglese (e dei loro mastodontici, spettacolari concerti) sembra essere spingervi a diffidare: delle macchine, dei governi, dei media e se possibile anche dei vostri parenti più stretti. «Il punto non è se sei paranoico, il punto è se sei abbastanza paranoico», diceva Tom Sizemore in Strange Days, una delle tante ispirazioni fantascientifiche dei Muse, che nell’artwork di copertina omaggiano Tron e nei video citano Ritorno al futuro. Il problema di tutti i paranoici è che dopo un po’ annoiano. Per tenere lontano questo spettro, ed evitare di parlare del futuro facendo lo stesso album da quindici anni, Bellamy ha ingaggiato una lussuosa squadra di produttori: Mike Elizondo (squadra Eminem), Shellback (collaboratore, tra gli altri, di Taylor Swift e Maroon 5) e Timbaland, che hanno aggiornato l’estetica dei Muse con sintetizzatori, hip hop, dance e orientalismi. Ingredienti di contorno che non cambiano la formula Muse: inni da arene per alzarsi e combattere contro gli oppressori senza volto. L’ultimo gruppo rock da stadio con obiettivi così ambiziosamente politici sono stati gli U2, solo che Bono voleva cancellare il debito e curare le malattie, Bellamy vuole abbattere i droni e spegnere gli algoritmi. I Muse stanno provando, album dopo album, a scrivere il The Wall della generazione digitale. Il loro problema è che il mondo intorno ai Pink Floyd, nel 1979, era molto più lineare da capire, denunciare e affrontare.