Nel paradiso perduto
Arriva il secondo romanzo di TIFFANY MCDANIEL: sempre ambientato nella «finta» Breathed, Ohio, in una famiglia fuori dagli schemi
Quando una donna osa scrivere qualcosa di dark o disturbante, è considerata un affare rischioso, se non proprio una persona ingestibile. Se invece lo fa un uomo, viene applaudito e considerato brillante e profondo. Ci si aspetta che le donne scrivano storie zuccherose, come se nelle nostre teste non potessimo averne altre». I libri di Tiffany McDaniel sono il contrario dello zucchero: sono fiele e veleno. Nel 2017, il suo L’estate che sciolse ogni cosa è stato un caso letterario, di quelli veri, che si gonfiano con il passaparola e l’amore dei librai indipendenti. Esce ora Il caos da cui veniamo (Atlantide, pagg. 430, € 28; trad. L. Olivieri): mentre il primo ruotava attorno a Sal, tredicenne nero incarnazione di Satana, che nella torrida estate del 1984 scoperchia più di una pentola a Breathed, sonnacchioso paesino dell’Ohio, in questo secondo romanzo protagonista è la numerosa famiglia Lazarus, di origini nativo americane e bianche, che negli anni ’50 torna nello stesso paesino dopo avere girato in auto mezza America. Tiffany McDaniel, 33 anni, «ohiana» doc, è poetessa (in questi giorni esce anche la sua raccolta Queste voci mi battono viva, sempre per Atlantide), pittrice e scrive romanzi da quando era bambina. Da allora ne ha scritti una decina, qualcuno anche in un mese, ma è stata pubblicata solo di recente. Perché solo ora? «Il sessismo esiste anche nell’editoria, nei premi letterari o nella ghettizzazione dell’etichetta “letteratura femminile”, che mette le donne in una posizione di svantaggio. Avevo anche pensato di usare uno pseudonimo maschile, ma poi sarei stata parte del problema e non della soluzione. La marea però è cambiata grazie ai nuovi movimenti femminili, che hanno incoraggiato a includere una maggiore varietà di voci. In questi 15 anni di rifiuti ho imparato che, come scrittori, spesso dobbiamo portare le nostre penne come spade, per combattere non solo per le nostre storie, ma anche per l’autenticità della nostra arte». Come è nato Il caos da cui veniamo? «Nell’estate dei miei 18 anni, mia madre mi raccontò di quando suo fratello, da piccolo, entrava nella sua camera e indossava i suoi abiti. Quella rivelazione fu la prima di molte altre sulla mia famiglia. Questo libro è nato dal razzismo, il sessismo e la povertà che mia madre ha dovuto affrontare crescendo in Ohio, è ispirato a episodi reali». Con la cittadina di Breathed, inventata, ha creato un mondo a cui il lettore si affeziona. Un po’ come ha fatto Kent Haruf con Holt. «Amavo l’idea di usare un’unica location dove potere esplorare tutta una girandola di personaggi. Breathed è allo stesso tempo un paradiso e un paradiso perduto. È nata dopo un mio viaggio sui monti Appalachi, dove follia e magia convivono, e somiglia molto a Minford, in Ohio, da dove vengono i miei». Nei suoi romanzi esplora l’infanzia. La sua come è stata? «Sono stata una bambina che disegnava persone morte e incidenti d’aereo. Mi è sempre piaciuto esplorare i frammenti rotti e le lame affilate, anche se può essere rischioso. Mi focalizzo su quell’età perché è il momento in cui perdiamo la pelle dell’innocenza e iniziamo ad assumere la forma di adulti». Perché ha avuto tanto successo in Italia? «Per una che ama la storia e l’archeologia come me, l’Italia è sempre stato uno dei posti da visitare, anche se non l’ho ancora fatto. Io credo che le storie che scrivo non parlino solo agli americani: quando tratti di amore, odio, famiglia e amicizia non importa dove le ambienti. Poi penso anche che il mio editore italiano abbia fatto un ottimo lavoro».