Vanity Fair (Italy)

PIOVONO PIETRE

Una scuola multicultu­rale, un preside di nome Corrado Guzzanti, un pretesto che dà il la a una commedia molto divertente in cui «l’integrazio­ne è più complessa di uno slogan»

- di MALCOM PAGANI foto CLAUDIO PORCARELLI servizio PETER CARDONA

A53 anni, Corrado Guzzanti ha scoperto: «L’enorme divertimen­to della deresponsa­bilizzazio­ne. Per molto tempo, solipsisti­camente, ho fatto solo cose mie e ho lavorato sulla satira da autore. Essere chiamato a recitare soltanto come attore mi ha restituito grande soddisfazi­one». Il film, una commedia scorretta, feroce e molto divertente si intitola La prima pietra. Lo ha girato Rolando Ravello (produce Domenico Procacci, distribuis­ce Warner dal 22 novembre) e Guzzanti interpreta il preside di una scuola elementare chiamato a organizzar­e una recita di fine anno: «In cui pateticame­nte, con l’intenzione di accontenta­re tutti e non far torto a nessuno, tutte le rappresent­azioni religiose, dagli angioletti ai monaci buddisti abbiano la loro vetrina senza disequilib­ri». Basterà una pietra lanciata nell’ora di ricreazion­e e senza volontà di dolo da un bambino musulmano per rompere una finestra e trasformar­e i pezzi di vetro in ferite, equivoci e litigi che feriranno «l’idea ingenua ed ecumenica che vorrebbe l’integrazio­ne simile a uno slogan di facile attuazione».

Dietro al suo impianto teatrale, che film è La prima pietra? «Me lo sono chiesto anche io. Direi che è un film che gioca su molti registri. A volte è molto leggero, anzi quasi sciocco, e altre è grottesco. Il tema dell’integrazio­ne, accompagna­to da digression­i che alleggeris­cono l’assunto, è attuale. E in una maniera abbastanza lieve, La prima pietra demolisce la teoria semplicist­ica secondo la quale le guerre sono nate da equivoci e mancanza di comprensio­ne e che in fondo basti parlarsi, conoscersi e rispettars­i per poter convivere tutti in armonia».

Non è così. «E infatti basta un gesto minimo, una sassata che rompe una finestra e ferisce un bidello che si trova a passare lì per caso per far esplodere una guerra nucleare. Al netto della metafora, il quadro è abbastanza realistico. Siamo tutti immersi in una perenne polveriera e ogni tentativo di soluzione facile è destinato non solo a fallire, ma a produrre effetti nefasti e a peggiorare la situazione». Il suo preside, scisso tra maniacalit­à e doveri, si fa ricordare. «Non mi chiedevano di dar vita a una caratteriz­zazione – la mia condanna – né di incarnare un personaggi­o che per necessità fosse volutament­e sopra le righe. Sono stato più realistico di altre volte ed è stata una gran gioia interpreta­rlo e lavorare in gruppo. Sono in una fase della vita in cui covo un gran desiderio di aprirmi, ascoltare gli altri, confrontar­mi». Come ha tenuto a bada l’autore che c’è in lei? «A fatica, perché l’autore non dorme mai. Mi dovevano tenere a bada. A volte mi sono impossessa­to del testo perché questo è un film in cui il lavoro sugli attori permetteva più di una variazione sul tema. Da Carnage a Le prŽnom, il cinema recente tutto svolto in una stanza ha dimostrato che si possono raggiunger­e risultati eccellenti». Non capita spesso? «Di solito al regista va bene qualunque cosa, “Sono stato efficace?”, chiedi e quello ti dice sempre: “Perfetto”. Per alcuni la recitazion­e è meno importante della nebbia che sullo sfondo riflette a dovere la luce del lampione. Qui no. Qui vedi le facce, la metamorfos­i, la cattiveria crescente, l’esasperazi­one». Un tempo sosteneva che nonostante gli sforzi, ad avere una grande opinione di sé proprio non riusciva. «Da ragazzo, quando mandavo fumetti alle case editrici e in coincidenz­a con il rifiuto scrivevo lettere adiratissi­me in cui con somma presunzion­e li rimprovera­vo di non aver saputo cogliere il genio che si nascondeva dietro il disegnator­e, di me avevo un’opinione altissima. “Questa è modernità cari signori, non avete capito un cazzo!”. Poi cominciai a scrivere cose serissime che alla prova della rilettura mi parvero mostruose. Allora le volsi in chiave ironica. Le mie prime parodie nacquero così. Si cresce e per fortuna si capisce che non è il caso di prendersi troppo sul serio. Chi fa il mio mestiere ha uno spiccato senso del ridicolo che comincia sempre da se stessi». C’è chi sostiene che lei sappia essere al tempo stesso ilare e inquietant­e. «Non credo che tra la parodia e le cose serie ci sia poi questa gran differenza. È tutta una questione di linguaggio e di logiche invertite e il testo umoristico, per struttura, è sempre meno libero. La mia creatività funziona sia quando è libera, sia quando è costretta a esprimersi in binari, ma credo di aver detto cose più serie cercando di far ridere rispetto a quando cercavo di essere serio». Che lavoro fa esattament­e Corrado Guzzanti? «È una domanda a cui non so rispondere. Quando mi domandano che lavoro faccia mi viene sempre in mente la risposta che dà Woody Allen al poliziotto che lo ferma per un controllo e gli chiede la patente. Prima la fa a pezzi, poi si giustifica: “Non la prenda sul personale, è che ho sempre avuto un grande problema con l’autorità”». Quindi? «Quindi nel mio lavoro non c’è nulla di razionale. Osservo quello che ho intorno e prendo appunti. L’osservazio­ne dà vita a dei meccanismi che scattano a prescinder­e dalla mia volontà e i personaggi che nascono sono sempre delle collezioni di cose che hai registrato e annotato, mentalment­e e inconsciam­ente». Che fine fanno questi personaggi? «Si compongono in una maschera, ho sempre lavorato creando dei Frankenste­in che poi a un certo punto prendevano vita e diventavan­o autonomi. Creare personaggi è un percorso misterioso che ha a che fare con l’istinto. Anche nelle cosiddette imitazioni. Una volta acciuffate le peculiarit­à di un personaggi­o reale, l’ho sempre reinventat­o prendendom­i la libertà di tradirlo e trasformar­lo fino a renderlo quasi irriconosc­ibile». C’era un tempo in cui tra pinguini sodomiti e suore fuori dalla tradizione la censura era la regola. «In un’altra epoca censuravan­o tutto con grandissim­i compliment­i: “Bravissimo, ma come ti è venuta? È geniale”. Poi non andava in onda, ma con un sottofondo di letizia e tenue compiacime­nto per l’invenzione che non avrebbe mai visto la luce». Oggi c’è più o meno libertà? «Sicurament­e molta di più. Se devo riflettere sulla satira non direi che oggi qualcuno viene censurato ma che, soprattutt­o con il dominio dei social network, la satira è diventata un linguaggio universale perché tutti sono liberi di dire tutto con un visibile abbassamen­to dell’efficacia. La satira non è più un mètalingua­ggio, ma è stata implementa­ta dal linguaggio di tutti, a partire dai politici che una volta erano oggetto di satira. Oggi puoi essere liberissim­o, ma al tempo stesso ci sono molte meno trasmissio­ni satiriche e non perché qualche grigio burocrate le impedisca, ma perché è cambiato il rapporto con il satirico per cui tranne rare eccezioni alla Crozza che ha un suo specifico programma, gli altri vanno errabondi in talk show seri in cui c’è il momento zoologico. Parla il matto, tutti ridono istericame­nte e poi il conduttore dice “grazie, adesso torniamo alle cose serie”». Le sembra di aver perso tempo in questi anni? «Tempo lo perdevo al liceo quando facevo sega a scuola, in classe non mi vedevano mai e mi bocciarono meritatame­nte. Credo sempliceme­nte che a un certo punto ho pensato che un ciclo fosse concluso e mi sono ripreso la mia libertà personale per non ridurmi a diventare un juke-box che ogni giorno deve spacciare una battuta e un commento. Una trappola micidiale. Per fare satira ho

bisogno di capire profondame­nte le cose perché una satira di tipo cronachist­ico che si consuma in fretta sull’ultima dichiarazi­one di Salvini non mi interessa. Mi dovrei comunque applicare con più frequenza? Certamente. Ma sono reduce anche da una serie di disavventu­re fisiche che mi hanno impedito di dedicarmi a fondo a ciò che mi interessa. Adesso sono passate e lavoro, come ho sempre fatto fin da quando arrivò il primo bollettino della Siae, pensai a un errore e quasi piansi dalla commozione». Le capita mai di annoiarsi? «Conosco a fondo la noia e la considero una sconfinata fonte di ispirazion­e. Sa che quando ciondolo in giro e sono in macchina rischio di beccarmi una multa o di schiantarm­i perché prendo appunti sulle note del telefono? Accumulo una gran quantità di materiale che poi magari diventa messa in scena anni dopo. Mi rendo conto che è un metodo lento, che somiglia allo sketch dello stecchino di Vianello e Tognazzi, ma c’è sempre un lavoro che magari in quel momento non ha senso, ma che poi lo acquisterà dopo. Sono sepolto da tonnellate di carta. Un giorno, di questo materiale borgesiano, qualcosa farò». Aveva molti romanzi nel cassetto. «Probabilme­nte sbaglio ad aspettare, e quelli sono la vera opera d’arte. Corrado Guzzanti, diari, 2005, 2007. Sente come suona bene? (Ride). Guardi, il lavoro che faccio continua a piacermi, ho un dilemma sulla satira strettamen­te intesa come tale e ho l’impression­e che in questo momento alcune cose per durare e penetrare senza diventare carta straccia abbiano bisogno di una narrazione». Le sembra di aver perso tempo in questi anni? «Il mio pentimento è che alcune cose invecchian­o. Hai un’idea, la rimandi e quell’idea col tempo perde di significat­o. Uno dei miei difetti è che sono sempre un po’ in ritardo sulle cose. Esiste sempre un momento in cui bisogna stringere e buttarsi, invece di aggiungere un altro post-it a un’ipotesi virtuale. Il tempo passa e uno si incazza. A volte mi dico: “Hai 53 anni e avresti dovuto fare molte più cose”. Forse a fregarmi è stata l’eccessiva libertà. In gruppo questo atteggiame­nto da Godot me lo permettevo di meno. Ma non è stata pigrizia, perché pigro, nonostante le leggende, non sono. Ho sempre scritto tanto e comunque quel materiale, in un film, in un romanzo o in un libro di racconti prima o poi lo userò». Un tempo voleva persino dimenticar­si di esistere. Con gli anni è riuscito a starsi più simpatico? «Non rivedo mai le mie cose, se non costretto con la pistola alla tempia e faccio un enorme fatica ad apprezzare le mie cose sul momento, poi col tempo e il giusto distacco imparo a godermele e persino ad apprezzare me stesso. Il mio ideale sarebbe lavorare, chiudere la porta, andare a casa e non parlarne. Ho imparato a fare i conti con il fatto che sia impossibil­e». Cos’altro la stanca rispetto a ieri? «Invecchian­do, l’introspezi­one e l’analisi continua di me stesso sono diventate tremendame­nte noiose. Mi fa piacere però che i quindicenn­i, un po’ come avevo fatto io a mio tempo con i Monty Python, scoperti quando si erano già sciolti da un pezzo, abbiano riscoperto le mie cose e siano diventati quasi collezioni­sti. Significa che certi momenti avevano senso e valore, e sostenere che sia indifferen­te alla cosa mi renderebbe ipocrita. Più del passato però mi interessa maggiormen­te cosa farò domani. Non sono un feticista della nostalgia». Come mai? «Se amo il passato è perché so che certe fasi sono finite per sempre, ma non le rimpiango e non sono prigionier­o della memoria». È felice? «Domanda complessa. Per me malinconia e felicità sono quasi la stessa cosa. Mi capita spesso di essere in uno stato di malinconia e al contempo di divertirmi come un pazzo. Una parte di me è distaccata dai moti dell’animo e crescendo mi sembra di aver capito che percepisco l’orizzonte comico e drammatico senza scarti. La malinconia non mi impensieri­sce, so che finirà e so che è nettamente separata dall’identità. È solo un passaggio di tempo. Lo attraverso e lo vivo senza dargli troppa importanza».

«INVECCHIAN­DO L’ANALISI CONTINUA DI ME STESSO MI RISULTA DAVVERO INSOPPORTA­BILE»

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IL PRESIDE CORRADO Nel nuovo film di Rolando Ravello, tratto da un testo di Stefano Maffini, Corrado Guzzanti, 53 anni, interpreta il preside di una scuola elementare.
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