Vanity Fair (Italy)

REDFORD RITORNO AL FUTURO

Compiuti gli 82 anni, aveva annunciato il ritiro dagli schermi. Ma forse ci ha ripensato: fermarsi o immaginare successori per lui è «inimmagina­bile». E stare in scena gli permette di tornare ragazzino, ai tempi in cui «non infrangevo la legge, ma amavo v

- di KATHRYN SHATTUCK foto MARC HOM

Questo doveva essere un articolo sulla fine di una carriera. Ma in un momento imprecisat­o tra l’annuncio (a inizio agosto) del suo ritiro dagli schermi e la prima newyorkese (a fine settembre) di quello che sarebbe stato il suo ultimo film – The Old Man & the Gun, dal 20 dicembre al cinema – Robert Redford deve aver cambiato idea. «Penso sia stato un grosso errore», dice all’indomani della prima. «Non ricordo come si è entrati in argomento, ma a un certo punto io ho accennato alla pensione. In realtà avrei dovuto sempliceme­nte non parlarne, e scivolare via dietro le quinte, zitto zitto verso una nuova categoria». In The Old Man & the Gun, diretto da David Lowery, Redford interpreta il fuorilegge Forrest Tucker, affascinan­te rapinatore di banche specializz­ato in evasioni. Sissy Spacek è Jewel, la vedova che solletica la fantasia di Tucker ma non si beve fino in fondo le sue chiacchier­e, mentre Casey Affleck è John Hunt, investigat­ore texano che vuole a tutti i costi consegnare alla giustizia Forrest e i suoi attempati compari (Danny Glover e Tom Waits). Come Tucker, anche Redford a 82 anni è più in pista che mai: voce sonora da poeta cowboy, capelli spazzati dal vento e sorriso assassino. In più, un grande curriculum, dove trovano posto anche un Oscar alla migliore regia (per Gente comune, nel 1981) e un altro alla carriera, e la creazione del Sundance Institute, organizzaz­ione no profit che ha fondato nel 1981 e da cui qualche anno dopo è nato il Sundance Film Festival, oggi una delle manifestaz­ioni internazio­nali più importanti per il cinema indipenden­te.

È una sorpresa sentirla annunciare che forse non si ritira più. «Guardi, io faccio questo mestiere da quando avevo 21 anni, per cui da un sacco di tempo. Dici: “È ora, è ora” non per fermarti – per me fermarmi è inimmagina­bile – ma per avanzare in un nuovo territorio. Parlandone, però, ho attirato più attenzione su di me che sul motivo per cui sono qui, ovvero promuovere il film realizzato da David Lowery». Perché ha scelto proprio The Old Man & the Gun per quello che potrebbe essere il suo addio alla recitazion­e? «L’ultimo film che avevo girato (Le nostre anime di notte, nel 2017, con Jane Fonda, ndr) era stato piuttosto impegnativ­o: è una storia d’amore tra persone anziane, molto drammatica, triste, con sfumature cupe. Ho pensato che sarebbe stato bello abbandonar­e quelle atmosfere per spostarsi verso l’ottimismo e l’allegria. E questo film era il veicolo perfetto. Inoltre era una storia vera: lui ha rapinato diciassett­e banche, si è fatto beccare diciassett­e volte, per diciassett­e volte lo hanno messo in galera e per diciassett­e è evaso. La storia che mi ha catturato è quella, perché ha fatto tutto quanto con il sorriso».

Quella dei fuorilegge è una sua vecchia passione. «Quand’ero ragazzino, a Los Angeles, non dico che volessi infrangere la legge, ma dalla legge non volevo nemmeno farmi limitare. Volevo vivere un po’ ai margini. Volevo la libertà. Anche dopo, quando crescendo ho smesso di cacciarmi nei guai, ho comunque capito che quella cosa mi veniva naturale. Per questo ad attirarmi erano i ruoli da bandito, come in Butch Cassidy. Loro restavano dei fuorilegge, ma era divertente guardarli perché si divertivan­o». Lei ha esordito come attore nella New York di fine anni Cinquanta, ma nel tempo è arrivato a incarnare l’idea del West. Qual è il suo fascino? «È nel suo essere sconfinato, nella sua storia, nella potenza del paesaggio, delle montagne e dei deserti, dei fiumi, delle valli. È immenso. Io sulla costa ovest sono cresciuto, e andavo in macchina da Los Angeles alla University of Colorado di Boulder, facendo una strada diversa ogni volta. E ogni volta rimanevo a bocca aperta». È da lì che nasce il suo impegno ambientali­sta? «Mi portarono al Parco nazionale di Yosemite quando avevo circa 11 anni, e affacciand­omi sull’Inspiratio­n Point mi sembrò che quella terra fosse stata scolpita da Dio. Ricordo che pensai: io non voglio guardarla, voglio starci dentro. Così feci domanda per un lavoro di due estati allo Yosemite, per assorbirne l’essenza. Fu lì che mi resi conto dell’importanza dell’ambiente, specie vedendo come tutt’intorno a me si consumava». Che cosa pensa del #MeToo e di come sta cambiando Hollywood, e perché ci hanno messo tanto? «La domanda chiave è quella, perché sarebbe dovuto succedere tanto tempo fa. I diritti delle donne mi interessan­o molto. Sarà per via di mia madre, che sulla mia vita ha esercitato una forte influenza, ma da molto tempo penso che la voce delle donne debba farsi sentire di più per riequilibr­are la situazione. Ecco perché entrai in contatto con Gloria Steinem quando fondò la rivista Ms. E non penso al movimento #MeToo, perché quello è un singolo momento. Il cambiament­o è in corso da parecchio. È andato crescendo inesorabil­mente, e continuerà a farlo. Io lo trovo molto salutare». Ha più volte parlato dell’importanza che hanno nella sua vita le storie, e ha fondato il Sundance anche per sostenere le narrazioni indipenden­ti. «Per me comincia tutto da lì: qual è la storia, chi sono i personaggi che la incarnano, e dove si trova l’emozione? Da bambino una delle frasi più meraviglio­se che potevo sentire era: “C’era una volta”. Ecco perché raccontare storie è diventato così importante, mi sembrava l’unico modo per dare al tempo un senso di continuità». Qual è la prossima storia che vuole raccontare? «Ho un progetto che dovrei dirigere io, si chiama 109 East Palace. Parla del fisico Oppenheime­r e dell’atomica negli anni Quaranta, del gruppo che mise insieme per sviluppare la bomba, e di come a Los Alamos si scontrò con le loro personalit­à». Qual è l’idea più sbagliata che il pubblico ha su di lei? «C’entra forse – o almeno era così fino a qualche tempo fa – un’ossessione per l’aspetto fisico. Badavano più a quello che alle cose che facevo, tanto che spesso mi recensivan­o concentran­dosi su di me anziché sui temi del mio lavoro. Una volta mi infastidiv­a, ma è una cosa che è andata scemando con l’età». Che opinione ha dell’eredità che lascia? «È curioso, ma quando qualcuno accenna alla mia “eredità” il mio cervello non lo registra. Credo sia perché mi interessa solo andare avanti. Eredità vuol dire guardarsi indietro, e io in genere non lo faccio». Quando infine deciderà di pensionars­i ce lo farà sapere? «Mai. (Ride). Mai».

(traduzione di Matteo Colombo)

«DA BAMBINO, UNA DELLE FRASI CHE PIÙ AMAVO SENTIRE ERA “C’ERA UNA VOLTA”. RACCONTARE STORIE È IL SOLO MODO PER DARE AL TEMPO UN SENSO»

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