Vanity Fair (Italy)

LA VITA SENZA SFUMATURE

Finita la trilogia a luci rosse che lo ha reso famoso, Jamie Dornan si prepara a diventare padre per la terza volta, e per l’occasione prenderà un lungo periodo di riposo. Ma intanto lo ritroviamo al cinema, con due film di tutt’altro genere

- di ENRICA BROCARDO foto BJORN IOOSS

Anche se non lo ammetterà mai, quando lo scorso febbraio la fase Cinquanta sfumature si è chiusa con l’uscita del terzo capitolo, Jamie Dornan ha tirato un sospiro di sollievo. Non lo ammetterà mai perché basta parlargli pochi minuti per capire che non è per niente stupido. Quel film ha significat­o non solo un bel mucchietto di soldi – qualche settimana fa ha venduto per 2,3 milioni di dollari la villa di Los Angeles che aveva comprato nel 2016 – ma gli ha aperto molte porte. Il sollievo, però, è più che comprensib­ile e ha a che fare con la pazzia che irrompe nella vita di chi ha la fortuna di essere scelto per interpreta­re un personaggi­o come Christian Grey. Pazzia virtuale che lo ha costretto a chiudere i profili Twitter e Instagram, e reale: «Un giorno mentre giocavo a golf in Scozia una donna si è avvicinata e mi ha chiesto di autografar­le il seno: “Scrivi Jamie da un lato e Dornan dall’altro”». In ottobre, Dornan ha annunciato che lui e la moglie Amelia Warner diventeran­no genitori per la terza volta. Il fatto che in questi mesi sia protagonis­ta di film importanti ma meno «sovraespos­ti», pertanto, è un’altra buona notizia. Il 20 ottobre, su Hbo è andato in onda My Dinner with Hervé, sull’intervista che l’attore Hervé Villechaiz­e rilasciò al giornalist­a Danny Tate poco prima di suicidarsi. Il 22 novembre, invece, escono da noi due film: Robin Hood - L’origine della leggenda e A Private War, ispirato a un articolo pubblicato su Vanity Fair America sulla vita della reporter di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike) morta nel 2012 durante l’assedio di Homs, in Siria. Dornan è il fotografo Paul Conroy che aveva lavorato con lei in Iraq. Conroy ha seguito da vicino la lavorazion­e del film. Com’è stato interpreta­re qualcuno che era lì con lei sul set? «Era la prima volta che mi succedeva. Finora mi erano capitati un paio di personaggi realmente esistiti ma non più in vita. Interpreta­re qualcuno che c’è ancora e averlo lì con te mentre giri le scene che quella persona ha vissuto nella realtà è un’esperienza un po’ al limite. Al tempo stesso, però, poter parlare con lui di quello che aveva pensato e provato in quei momenti mi ha aiutato molto». Ha detto di aver bisogno di una pausa. La farà ora che sta per diventare di nuovo padre? «Questo lavoro va a fasi, ci sono periodi in cui non ti fermi e altri in cui non succede nulla. In realtà mi sono già concesso uno stacco: Robin Hood era pronto dal 2017, le riprese di My Dinner with Hervé risalgono a un anno fa, mentre A Private War lo abbiamo finito all’inizio di quest’anno e subito dopo mi sono fermato cinque mesi per dedicarmi alla famiglia. È stato fantastico». E che cosa fa quando riesce a staccare? «Posso fare il papà e basta. In quei mesi ho continuato a leggere sceneggiat­ure e avere incontri di lavoro, ma la maggior parte del tempo l’ho passato a fare il marito e il padre, le due cose che mi rendono più felice». Ha in mente un piano particolar­e per l’arrivo del neonato? «Mi prenderò un po’ di tempo prima della nascita e un

«VOGLIO ESSERE IL MIGLIOR PADRE POSSIBILE MA DEVO PURE GUADAGNARE PER MANTENERE LA MIA FAMIGLIA, E QUESTO VUOL DIRE SCEGLIERE BENE I FILM»

altro po’ dopo. Quando sono nate le bambine non ho potuto permetterm­i questo lusso perché ero obbligato a stare sul set». Non era presente quando sono nate? «Certo che c’ero, non potrei mai perdonarmi di non aver assistito alla nascita delle mie figlie. Però sono dovuto tornare al lavoro subito dopo». Diventare padre l’ha cambiata? «Intanto ti rendi conto di che cosa significa trovare un equilibrio tra vita e lavoro. Voglio essere il migliore padre possibile ma devo anche guadagnare per mantenere la mia famiglia. E questo vuol dire scegliere i film anche in base all’impatto che hanno sulla vita di tutti, magari dando la preferenza a quelli che non ti portano dall’altra parte del mondo, garantirsi delle pause. Destreggia­rsi tra mille cose ogni giorno». Che cosa significa essere un buon padre? «Esserci. Occuparsi di tutte quelle piccole cose che sembrano banali o noiose ma che, invece, io adoro fare: accompagna­re i figli a scuola, preparare la colazione, metterli a dormire, raccontare loro una storia. Tutte quelle cose che riempiono la giornata di un genitore. Aiutarli a crescere, insomma». Prima di fare l’attore lei è stato un modello di successo. Le manca niente di quel mondo? «Ci sono alcune persone con le quali ho lavorato, agenti per esempio, con cui avevo un ottimo rapporto, loro un po’ mi mancano. Ma del lavoro in sé niente di niente». Non le andava proprio. «Viaggiare non era male. E avevo un sacco di tempo libero, in media 250 giorni all’anno. A 20 anni guadagnare bene e lavorare poco è piuttosto piacevole. Ma ho sempre detestato posare». Il suo primo film è stato Marie Antoinette di Sofia Coppola. Come ottenne quel ruolo? «Nel 2005 avevo da poco trovato un agente. Feci una prima audizione a Londra, poi una seconda a Parigi e la notte stessa incontrai Sofia che mi disse che la parte era mia. L’anno prima aveva vinto un Oscar per Lost in Translatio­n... Ero felicissim­o». Ci credo. «Il problema è che, da inesperto, pensi che funzioni sempre così, che sia tutto facile. Ovviamente, non lo è. Oggi mi rendo conto di quanto sia stato fortunato a lavorare con una regista come lei, girare a Parigi e a Versailles con un cast di attori fantastici. Ci sono voluti dieci anni per rivivere di nuovo qualcosa del genere». Girare A Private War in Giordania dev’essere stata un’esperienza diversissi­ma ma altrettant­o intensa. «Assolutame­nte. E il fatto che il regista, Matthew Heineman, venga dai documentar­i ha reso tutto più reale. Molte delle comparse erano veri rifugiati siriani e dovevano girare scene in situazioni molto realistich­e, probabilme­nte più di quanto si sarebbero aspettati. Ho assistito a momenti in cui molti di loro non resistevan­o e scoppiavan­o a piangere». Lei ha perso sua madre, morta per cancro, quando aveva 16 anni. Ho l’impression­e che solo di recente abbia trovato la forza di parlarne. È così? «Non credo che sia cambiato qualcosa in me, forse prima non me lo chiedevano e hanno cominciato a farlo da quando sono diventato testimonia­l di un’organizzaz­ione che raccoglie fondi per i malati di tumore al pancreas. La morte di mia madre è stata sempliceme­nte un’esperienza orrenda che ho vissuto a un’età in cui si è particolar­mente vulnerabil­i. Continuo a fare i conti con quello che è successo ogni giorno, in modo consapevol­e e no». Che cosa intende? «Che sono diventato quello che sono anche attraverso questa tragedia». Ho visto che esiste una sua biografia intitolata Cinquanta sfumature di Dornan. L’ha letta? «Non ho alcuna idea di che cosa sia scritto in quel libro, e non m’interessa». Magari ci sono scritte cose orribili sul suo conto. «In quel caso i miei avvocati mi avrebbero fatto sapere. Ma non credo. Non ho scheletri nell’armadio».

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