PERCHÉ gli UOMINI
POSSONO FARLO...
E noi donne no? È la domanda che Jennifer Garner si è posta nell’accettare il suo ultimo ruolo al cinema, una donna che si fa giustizia da sola. Naturalmente ha detto sì, anche perché la sua protagonista riesce così a ricostruire una nuova versione di sé. Un tema (vedi un certo ex marito) che non può non affascinarla
Jennifer Garner fu scoperta dal mondo grazie ad Alias, la serie tv nata dal genio di JJ Abrams in cui interpretava l’agente della Cia Sydney Bristow. Era il 2001, aveva solo 29 anni. Diventò il suo passepartout per Hollywood. Con quel ruolo ottenne quattro nomination consecutive ai Golden Globe (lo vinse nel 2002), utili a convincere i più importanti produttori. Da lì in avanti, la ragazza texana dal volto angelico avrebbe collezionato titoli importanti: come Juno e Dallas Buyers Club, ma anche Pearl Harbor e Daredevil, film grazie ai quali si sarebbe innamorata di Ben Affleck, suo ex marito. Oggi Jennifer Garner è una donna matura e un’attrice di grande esperienza, una delle più rispettate a Hollywood. È sopravvissuta alla più grande delusione d’amore, quella che sopportano le donne che ancora amano ma, per il proprio bene e quello dei figli, decidono di separarsi da uomini cambiati dalla dipendenza. «È e resterà sempre l’amore della mia vita», aveva dichiarato l’attrice, proprio a Vanity Fair, qualche tempo dopo la separazione. Quando ci incontriamo al Four Seasons Hotel di Los Angeles, Garner è raggiante. Indossa camicetta blu e un paio di pantaloni grigi a vita alta. Look sobrio ed elegante, com’è nel suo stile, arricchito solo da qualche gioiello: una collanina con ciondolo, un braccialetto al polso sinistro e un bellissimo anello all’anulare destro. La fede ormai non c’è più, da quando, non molto tempo fa, ha firmato le carte che hanno ufficializzato il divorzio, dopo un matrimonio durato 12 anni (dal 2005 al 2017). Si è dovuta anche prendere cura di Affleck, ricascato nell’abuso di alcol. Il tutto mentre lavorava e accudiva i tre figli avuti dal divo hollywoodiano: Violet, 13 anni, Seraphina, 9, e Samuel, 6. Le domande sull’ex marito sono vietate, ma dei figli parla con piacere. Forse perché, a causa del lavoro, si sente un po’ in colpa con loro. Le riprese del suo ultimo film, Peppermint (nelle sale italiane dal 15 novembre), l’hanno costretta per mesi a un’assenza forzata. E lei ci ha sofferto: «Una mamma vorrebbe trascorrere tutto il proprio tempo insieme ai figli. In ogni caso è andata bene, li avevo preparati a come sarebbe stata la nostra vita in quel periodo. Lavoravo dieci ore al giorno, ma riuscivo quasi sempre a essere a casa per dare loro la buonanotte. Alla fine, quando sei una madre è questo che conta di più. Di certo mi ha aiutato molto a sopportare la tensione delle riprese». Girare Peppermint è stato molto faticoso, ha richiesto a Garner un enorme sforzo fisico e mentale. Uno sforzo persino superiore al dover avere a che fare con i gruppi whatsapp delle mamme dei compagni di scuola dei figli... «Capisco cosa vuol dire ma, si fidi, è molto più difficile girare un film d’azione. Le madri dei compagni dei miei figli sono donne tranquille, e poi sono tutte mamme che lavorano, sono sempre state molto comprensive con me». La comprensione è un sentimento che invece non conosce la protagonista del film, diretto da Pierre Morel. Riley North è una donna ferita, che diventa una macchina da guerra con un solo obiettivo: vendicare la morte del marito e della figlioletta uccisi in un agguato a Santa Monica, a due passi dal celebre molo. Armata fino ai denti e abilissima nel premere il grilletto – pistola, fucile o kalashnikov che sia –, non ha nessuna pietà. Nonostante un altro divieto, quello che mi impone di non porre domande sull’estrema facilità di reperimento e utilizzo delle armi negli Stati Uniti, riesco a strappare un suo pensiero: «Spero che le persone capiscano il senso della pellicola. Credo si possa accettare di fare un film di questo tipo solo se si accetta anche il fatto che si tratta di pura fantasia, come per Jason Bourne per esempio. Non ha nulla a che vedere con la realtà». La vendetta, poi, è un sentimento che non appartiene nemmeno lontanamente alla realtà di Jennifer Garner. «Non ci ho mai creduto. Nel film sembra l’esatto opposto, ma io non sono così. Credo però ci sia un qualcosa di molto potente nel saper prendere in mano le redini della propria vita, nel fare tabula rasa e ripartire da zero, proprio come accade alla mia Riley. Dopo la delusione, riesce a ricostruire una nuova versione di se stessa. È un’abilità che affascina molto anche me». Magari anche lei ha storto il naso quando le è stata offerta la parte. «È vero, all’inizio mi sono chiesta se fosse davvero il caso di girare un film del genere. Poi però mi sono posta un’altra domanda: perché gli uomini possono farlo e noi donne no?». E allora perché non accettare? In Peppermint si racconta la storia di una donna che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Per questo, forse, anche Riley North avrebbe fatto parte del movimento del #MeToo. «La mia protagonista pensa esattamente quello che pensano tutte quelle donne che negli ultimi mesi hanno dato vita a una vera e propria rivoluzione». Una rivoluzione che pare stia portando a un reale cambiamento a Hollywood. A sostegno di questa tesi, che i più scettici faticano ancora ad accettare, c’è un aneddoto che la stessa Garner mi vuole raccontare. «Lo scandalo molestie è esploso proprio mentre stavamo girando il film. A un certo punto dovevo cambiarmi i pantaloni, ma non c’era tempo per fare uscire tutta la crew. Poco male, la cosa non mi turbava affatto, in passato ho persino allattato sul set, così ho detto a tutti di restare, che mi sentivo a mio agio e non c’era bisogno che se ne andassero». Tutto normale, se solo fosse successo prima dello scorso autunno. «Sa cosa mi hanno risposto? Che non potevano e non volevano restare e che una cosa del genere non sarebbe più potuta accadere. Ci ho pensato un po’ e in effetti mi sono trovata d’accordo con loro, di questi tempi meglio una precauzione in più che una in meno».