DAL LETAME NA SCONO I FIORI
In Indonesia, a pochi chilometri dalla capitale Giacarta, c’è una discarica-montagna di spazzatura. Dentro e fuori ci sono baracche abitate da migliaia di persone. Che vivono raccogliendo plastica. E qualcuno, come Mak Muji, dà una mano a partorire
Mak Muji ha mani esperte. Fanno rinascere plastica data per morta, e portano nuova vita nella comunità dei trashpickers, i raccoglitori di materiali riciclabili, della più grande montagna di rifiuti di Giacarta, in Indonesia. Una delle discariche più grandi al mondo. Di professione Mak Muji, 55 anni, fruga tra i rifiuti in cerca di materiale da riciclare. «Riconosco 12 tipi di plastiche diverse solo toccandole», dice, mostrando il palmo delle mani. Ma sono mani delicate, dai sacchetti di plastica passano infatti rapidamente alle placente. Sanno muoversi tra i rifiuti maleodoranti ma sanno anche assistere una gravidanza, condurre un parto. «Aiuto le donne che vivono qui, le donne trashpicker di Bantar Gebang. Le aiuto a partorire da ormai 13 anni». Un angolo della sua abitazione, da cui si vede la montagna di spazzatura, è diventato un piccolo ambulatorio ostetrico. Una ventola appesa al sottile compensato del soffitto gira incessantemente. E se non rinfresca l’ambiente tropicale della stanza, tiene almeno lontane le mosche che proliferano tra i liquami della discarica. Intorno alla discarica di Bantar Gebang, che si trova a 40 chilometri da Giacarta, ma ormai anche al suo interno, si sono stabilite 1.500-2.000 famiglie che formano un’autentica comunità stabile, un villaggio. Girare tra le case del villaggio, sorto non solo ai piedi ma in parte anche all’interno della colossale discarica, è un viaggio nel futuro di molti slum del pianeta. Alcune abitazioni sono precarie, in bambù e lamiere, altre in mattoni. Siamo nell’Antropocene, l’era della plastica, del consumo e del clima impazzito. L’era in cui la popolazione umana si è trasferita dalla campagna alla città. Una lenta migrazione verso città ormai sature, come Giacarta, che ora ha una moratoria sulla immigrazione interna. Così, spazio e lavoro si trovano nelle discariche dei rifiuti che provengono, appunto, dal centro delle città. Questo è quanto è accaduto a Mak Muji, arrivata dalle campagne di Sumatra, dalle risaie e dalle piantagioni di frutta, alla discarica di Bantar Gebang. Lei è diventata il collante di una comunità umana che nella discarica della megalopoli ha deciso di stabilirsi, di dare un senso di luogo a un posto che dovrebbe essere il cimitero delle cose, dei rifiuti della società. Ha colmato una delle molte carenze che affliggono i lavoratori irregolari che vivono intorno alle discariche. È diventata la levatrice del villaggio. «Le donne qua non vanno all’ospedale perché non se lo possono permettere», spiega Mak Muji. «A volte le ostetriche dell’ospedale sono poco pazienti, ci chiedono cose a cui non sappiamo rispondere e ci sentiamo in imbarazzo. Le ostetriche non sono attente ai bisogni delle giovani madri trashpicker». Il marito di Mak Muji ha aggiunto un piano alla abitazione. La comunità cresce e ormai il traffico di gestanti è continuo. Il piccolo ambulatorio è animato dal chiocciare intorno di tre galline, dai jingle dei cellulari, dallo strepitio di qualche motorino di passaggio, e dal caratteristico odore familiare anche lungo le nostre
coste, quello del cassonetto al sole di luglio quando al suo interno i rifiuti organici cominciano a puzzare. In compagnia delle mosche, di fronte alla casa-ambulatorio di Mak Muji ci sono 32 sacchi pieni di plastica ancora da smistare. All’interno del sacco c’è un «tesoro». Si va dalle suole di scarpe ai sacchetti multicolori del bazar e dei supermercati. Ci sono bottiglie di plastica, ma anche lattine, tappi di metallo. E vetro, talvolta tagliente, che ferisce. «Ci metteremo 12 giorni a smistarne il contenuto»», dice Mak Muji. «Per ogni sacco potremmo ricavare anche 100 mila rupie». Sono circa 250 euro al mese che devono servire a lei, al marito, ai tre figli di cui due vanno all’università. Si tratta di un guadagno abbastanza elevato rispetto a chi lavora nella raccolta sul monte dei rifiuti. E comunque è nella media dei salari minimi di Giacarta, quanto prenderebbe uno spazzino municipale. L’Indonesia è del tutto impreparata a gestire i rifiuti prodotti dall’aumento dei consumi. La discarica, priva di sistemi per evitare la contaminazione di aria o delle falde acquifere, era stata progettata nel 1988 per ricevere un massimo di 4.500 tonnellate di rifiuti al giorno. Ma la realtà è ben diversa: «Ogni giorno a Bantar Gebang arrivano 7 mila tonnellate di rifiuti urbani», spiega Annisa Paramita di Waste4Change, una start up di Giacarta che si occupa di gestione della immondizia. Un’interminabile colonna di camion arancioni riversa pattume ai piedi della montagna notte e giorno. Una catena di ruspe, precariamente appostate una sull’altra, sposta quintali di materiale dal fondo alla cima di questa montagna, che raggiunge i 25 metri di altezza. E che copre un’area di 108 ettari, più di cento campi da calcio. Ancora oggi il 69 per cento dei rifiuti urbani prodotti dai 10 milioni di abitanti di Giacarta alimentano la montagna di Bantar Gebang. Il resto viene disperso nelle campagne, nei fiumi, in mare o, in parte, rientra nell’enorme ma nascosta macchina del riciclo non regolamentato. In pratica, Mak Muji e i circa 350 mila pemulung (un termine dispregiativo adoperato per i raccoglitori di rifiuti) di Giacarta, di cui almeno 6 mila a Bantar Gebang, svolgono il lavoro che il governo indonesiano finora è stato incapace di assolvere: riciclare parte dei rifiuti urbani. Le stime di Waste4Change dicono che il governo
ricicla meno del 10 per cento dei rifiuti. Grazie ai trashpickers però un altro 20 per cento viene sottratto alla montagna infame. Si tratta di lavoro non regolamentato. Nessuna imposta, nessun contributo sociale e nessuna sicurezza, né economica né sociale. Difficile ottenere diritti se si è parte di una società fantasma, non registrata, negletta. Ciò che chiedono i pemulung sono innanzitutto dignità e sicurezza. Perché quello che prima era un insediamento temporaneo, un «piano B» dopo essere stati rifiutati dalla città, ora è un villaggio stabile dove pattume e territorio si confondono. Il quartiere di Mak Muji è un misto tra comunità, cantiere e discarica. Il termine slum, associato non solo alla povertà ma alla precarietà, non funziona più. Ci sono le gabbiette appese fuori dalle abitazioni, lì solo per il piacere di sentire il canto degli uccelli. C’è una corda tesa tra due alberi per giocare a volano o a pallavolo. C’è una nuova e lucente moschea. I pemulung di Bantar Gebang sono qui per restare. C’è Jamar, un giovane trashpicker, che fuori dalla sua abitazione, non più di un metro quadrato di terreno, sta piantando erba e un piccolo bonsai. «Mi piace lavorare al mio giardino, mi dà pace», dice. Il suo non è un atteggiamento precario. C’è poi il meccanico che nel giorno di riposo si stende su un giaciglio di fronte a casa, lo sguardo verso le montagne, ma quelle di pattume, da cui giungono le melodie del rumore delle ruspe. Alle sue spalle un acquario dall’acqua torbida: «Per bellezza, mi piacciono i pesci». E c’è Mak Muji, che si aggira sempre tra le case, salutando questa e quella famiglia. «Io penso che la vita dei trashpickers migliorerà quando tutti i bambini potranno andare a scuola e se il governo, o almeno la municipalità, si prenderà seriamente cura di loro. Ma c’è poco interesse a mandarli a scuola. Questo è ciò che non va bene nel nostro quartiere», dice con rassegnazione. «Essermi trasferita qui non mi dispiace e sono felice perché posso lavorare, ho potuto mandare a scuola i miei figli, e aiuto chi ha bisogno: io non ho altre capacità né esperienze lavorative di alcun tipo, ma qui posso aiutare le partorienti, lavorare i rifiuti, mandare a scuola i bambini». Il quartiere dei rifiuti è il suo luogo, riciclare è il suo ruolo, come lo è portare nuova vita nella comunità. Vorrebbe solo che tutto questo le fosse riconosciuto.