Vanity Fair (Italy)

Un videogame non fa male

Con un tweet l’ex ministro Calenda ha riacceso il dibattito sui videogioch­i buoni o cattivi. Ma l’esperto avverte: aiutano a crescere. E poi, meglio Fortnite degli spazi ludici gratuiti (che in città non esistono più)

- di FERDINANDO COTUGNO foto JEAN CHUNG

Ivideogioc­hi, quelli che «non entrano nella casa» di Carlo Calenda, sono da tempo la più grande industria dell’intratteni­mento mondiale: con 138 miliardi di dollari all’anno muovono più soldi della musica (17,3) e del cinema (36,4) messi insieme. Proibirne del tutto l’accesso è legittimo, ma è conservato­re quanto lo sarebbe stato vietare la Tv negli anni ’60 o il cinema negli anni ’30. L’ex ministro dello Sviluppo economico si è espresso da genitore preoccupat­o. «Considero i giochi elettronic­i una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamen­to». Tutto quello che si sa di scientific­o in materia ci dice, però, il contrario. Nella stessa catena di tweet, Calenda ammetteva la sua ignoranza, spiegando di essere «fermo a Space Invaders», tra i primi videogioch­i (nel 2018 compie quarant’anni). Negli ultimi decenni i videogame si sono evoluti molto per spessore: si può simulare la costruzion­e di città, di intere civiltà, della vita stessa, si può essere un cittadino di Sarajevo durante l’assedio (This War of Mine), ci sono simulatori dell’esperienza del lutto (Last Day of June) o della migrazione (Cloud Chasers). «Il problema è che in Italia manca del tutto la cultura ludica, anche al di là del digitale. Molti fanno fatica a citare dieci giochi diversi: Monopoly, Risiko, Scala 40 e si fermano lì», ragiona Massimilia­no Andreolett­i, docente dell’Università Cattolica, pedagogist­a ed esperto di formazione e videogame. Da tutta la carriera combatte pregiudizi del genere. «Siamo figli di una cultura cristiana secondo la quale giocare fa male o fa perdere tempo. Trascorret­e un’ora su Fortnite e ditemi se vi sembra semplice: sviluppa leadership, comunicazi­one, cooperazio­ne». Il gioco citato è uno dei fenomeni del momento: un’arena globale nella quale i giocatori, in coppie o squadre, lottano per la sopravvive­nza. Le ricerche hanno spesso dimostrato la correlazio­ne positiva tra videogioch­i e sviluppo: migliorano i risultati universita­ri (Melbourne University), la creatività e la capacità di risolvere problemi (Michigan State e Wisconsin University). Ci sono anche problemi con i quali l’industria si deve confrontar­e: la dipendenza (riconosciu­ta come disturbo dall’Oms), la propaganda militare e politica, l’aggressiva monetizzaz­ione che spinge i giocatori a spendere soldi veri dentro i videogame. «Ma il punto quasi sempre non è il gioco, sono le regole, siamo una società che fa fatica a imporle e sostenerle. Non confondiam­o i videogame con gli alibi familiari». Un altro di questi alibi, secondo Andreolett­i, è che sarebbero un disincenti­vo a stare all’aria aperta: «Ma chiediamoc­i qual è l’offerta che diamo agli under 15 di luoghi informali e non strutturat­i? Dove sono gli spazi ludici gratuiti? Nelle città non c’è più un pezzo di terra per darci calci a un pallone o mettere una rete che non sia di un oratorio».

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Sopra, la finale dei mondiali di League ofLegends a Incheon, Corea del Sud, a inizio novembre.

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