Un videogame non fa male
Con un tweet l’ex ministro Calenda ha riacceso il dibattito sui videogiochi buoni o cattivi. Ma l’esperto avverte: aiutano a crescere. E poi, meglio Fortnite degli spazi ludici gratuiti (che in città non esistono più)
Ivideogiochi, quelli che «non entrano nella casa» di Carlo Calenda, sono da tempo la più grande industria dell’intrattenimento mondiale: con 138 miliardi di dollari all’anno muovono più soldi della musica (17,3) e del cinema (36,4) messi insieme. Proibirne del tutto l’accesso è legittimo, ma è conservatore quanto lo sarebbe stato vietare la Tv negli anni ’60 o il cinema negli anni ’30. L’ex ministro dello Sviluppo economico si è espresso da genitore preoccupato. «Considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento». Tutto quello che si sa di scientifico in materia ci dice, però, il contrario. Nella stessa catena di tweet, Calenda ammetteva la sua ignoranza, spiegando di essere «fermo a Space Invaders», tra i primi videogiochi (nel 2018 compie quarant’anni). Negli ultimi decenni i videogame si sono evoluti molto per spessore: si può simulare la costruzione di città, di intere civiltà, della vita stessa, si può essere un cittadino di Sarajevo durante l’assedio (This War of Mine), ci sono simulatori dell’esperienza del lutto (Last Day of June) o della migrazione (Cloud Chasers). «Il problema è che in Italia manca del tutto la cultura ludica, anche al di là del digitale. Molti fanno fatica a citare dieci giochi diversi: Monopoly, Risiko, Scala 40 e si fermano lì», ragiona Massimiliano Andreoletti, docente dell’Università Cattolica, pedagogista ed esperto di formazione e videogame. Da tutta la carriera combatte pregiudizi del genere. «Siamo figli di una cultura cristiana secondo la quale giocare fa male o fa perdere tempo. Trascorrete un’ora su Fortnite e ditemi se vi sembra semplice: sviluppa leadership, comunicazione, cooperazione». Il gioco citato è uno dei fenomeni del momento: un’arena globale nella quale i giocatori, in coppie o squadre, lottano per la sopravvivenza. Le ricerche hanno spesso dimostrato la correlazione positiva tra videogiochi e sviluppo: migliorano i risultati universitari (Melbourne University), la creatività e la capacità di risolvere problemi (Michigan State e Wisconsin University). Ci sono anche problemi con i quali l’industria si deve confrontare: la dipendenza (riconosciuta come disturbo dall’Oms), la propaganda militare e politica, l’aggressiva monetizzazione che spinge i giocatori a spendere soldi veri dentro i videogame. «Ma il punto quasi sempre non è il gioco, sono le regole, siamo una società che fa fatica a imporle e sostenerle. Non confondiamo i videogame con gli alibi familiari». Un altro di questi alibi, secondo Andreoletti, è che sarebbero un disincentivo a stare all’aria aperta: «Ma chiediamoci qual è l’offerta che diamo agli under 15 di luoghi informali e non strutturati? Dove sono gli spazi ludici gratuiti? Nelle città non c’è più un pezzo di terra per darci calci a un pallone o mettere una rete che non sia di un oratorio».