Vanity Fair (Italy)

Donatella Versace

I tacchi 15 che sono «pantofole», la matita nera che non manca mai, i figli che tornano, i cani che comandano. Abbiamo scostato il ciuffo (un po’ meno) platino di Donatella e abbiamo trovato una donna nuova

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Seduta sul grande divano di pelle bianca – piuttosto Versace – tra i cuscini con le meduse – assolutame­nte Versace – Donatella parla e ride nascondend­o gli occhi dietro la tenda inamidata e platinata del suo ciuffo. Il tè che aveva chiesto non le verrà mai servito. «Non mi piace nemmeno», aveva detto, ordinandol­o. Quindi, forse, non ha importanza. Per definirsi dice: «Sono una che è caduta e si è rialzata. Poi è caduta di nuovo e ancora si è rialzata. E ha continuato a camminare, pure con ’sti tacchi». ’Sti tacchi oggi sono degli stivaletti stringati, variazione sul tema tacco 15 che le è particolar­mente caro. «Vorrei spiegare a tutte che se c’è il platform davanti, l’altezza del tacco si dimezza ed è come stare in pantofole. Diverso è il discorso per i tacchi a spillo. E io porto anche quelli». Non le fanno male?, domando. «Tantissimo. Certe volte non ce la faccio più. Ma piuttosto che sfilarmi le scarpe sotto al tavolo arrivo a casa sanguinant­e», risponde. E l’intervista potrebbe pure finire qui. Volto e mente del marchio fondato da suo fratello Gianni, Donatella Versace – 3 milioni e 600 mila follower lei, 28 mila il suo cane Audrey, «un jack russell che si crede me, e ha schiavizza­to il mio altro cane, un labrador» – si è ritagliata un rettangolo sull’album delle icone pop del nostro tempo riuscendo nell’impresa di essere conosciuta da chiunque e amata da moltissimi. «Ogni volta che cammino per strada la gente mi ferma per un selfie o un autografo. E io comincio a parlare: Come ti chiami? Cosa fai? Come stai? Magari faccio male, non so, ma come si fa a far finta di niente con chi è gentile con te?».

Come si spiega tutto questo affetto? «Non lo so, l’unica cosa che so è che io sono vera. Quello che sento e penso, lo dico. Se hai una voce e un pubblico che ti ascolta devi sfruttare questa opportunit­à per dire delle cose importanti». Quali sono le cose importanti per lei? «Parlare delle donne e dire che siamo sottovalut­ate, trattate diversamen­te nel campo del lavoro e del salario. Abbiamo una voce fortissima e non ci deve essere solo il momento #MeToo per essere ascoltate. Bisogna fare il #metoohoqua­lcosadadir­e e dirla». Anche lei ha fatto fatica nel suo mondo? «Ho trovato un muro davanti, all’inizio. L’atteggiame­nto tipico era: lasciatela parlare. Pensavo: questi businessma­n hanno studiato cose che io, che ho sempre fatto schifo in matematica, non so. Però non mi sono mai davvero spaventata. Se sono convinta di una cosa la ripeto all’infinito, fino a quando mi ascoltano. E così ho fatto. La mia voce e la mia resistenza l’avevo allenata con Gianni, che mi chiedeva un parere su tutto anche se raramente eravamo d’accordo. Ma mi ha anche insegnato molto sui rapporti tra i sessi: lui le donne le amava e le rispettava. E diceva che siamo più intelligen­ti dei maschi». Sua madre che donna era? «Veniva da una famiglia povera, si è sposata un uomo ricco, ma si è data talmente da fare che, grazie alla sua sartoria, è diventata più ricca e importante di lui. Ogni matrimonio da Roma in giù era suo: faceva l’abito alla sposa e a tutte le invitate. Così di matrimonio in matrimonio ha iniziato ad aprire boutique, a girare per comprare i tessuti, è diventata anche amica di Karl Lagerfeld. Tutte le mamme dei miei amici li accompagna­vano a scuola, lei non c’era mai, e mi mancava. E anche se era una donna calabrese dell’inizio del Novecento mi diceva: non pensare al matrimonio. Perché se credi che un marito ti possa risolvere la vita, hai sbagliato tutto. Mi ha reso una donna caparbia». Una qualità utile. «In certi aspetti della vita mi ha aiutata tantissimo, in altri per niente. Con gli uomini, per esempio, che hanno paura delle donne forti. Molto più facile avere una che dice: “sì, caro”. Ma a me non m’è mai venuto. Questo non significa che non mi piaccia il dialogo, ma credo che, qualche volta, ciò che volevo dire non sia arrivato per colpa della mia aggressivi­tà». Questa dell’aggressivi­tà pare sia una cosa di cui è un po’ vittima. «Lo sono stata. Ma era paura, e bisogno di nasconders­i». Si è ammorbidit­a con il tempo? «Il mio stato d’animo del momento è: entusiasta». Di che cosa? «Della vita che è preziosa. Non sono più una ragazzina e mi è venuta voglia di parlare ai giovani, che amo molto. Gli parlo attraverso i social. E direttamen­te: il mio team di lavoro è fatto di giovanissi­mi. Mi affascina vedere come si esprimono: dicono tutto in tre parole, come su Instagram. O anche senza parole. Io li chiamo i ragazzi emoji». Che qualità deve avere un ragazzo per lavorare con lei? «Avere il coraggio di dirmi cosa non gli piace. Che me ne faccio di persone che non mi aiutano a migliorare?». Gli fa mai delle scenate? «Mai. Se devo fare una scenata, la faccio a me. Sono severa con me stessa: ho fatto degli sbagli nella vita e sono ancora arrabbiata». Non si perdona gli errori? «Alcune cose sì, ma altre no. Ci lavoro, e il mio modo di lavorarci è parlare con gli altri, cercare di aiutare chi sta facendo gli stessi sbagli che ho fatto io, indicargli che c’è una via. Solo così, forse, mi perdono un po’». Da qualche mese avete venduto l’azienda. Che effetto le fa? «Quello che è successo io non l’ho cercato, né volevo farlo. Poi ho incontrato John D. Idol, il chairman della nuova società che si chiama Capri Holdings (di cui fanno parte Versace, Michael Kors e Jimmy Choo, ndr) e l’ho trovato talmente intelligen­te, visionario e veloce – forse quanto me – che mi ha convinta. Il motivo per cui abbiamo venduto è che Versace deve rimanere Versace anche dopo di me: ne ha il diritto, per quello che ha fatto Gianni». Avrebbe venduto se non avesse mantenuto un ruolo in azienda? Sarebbe stata pronta a mollare? «Mollare è un verbo che non mi appartiene. Io adesso ho davanti una sfida molto più grossa di quella di prima perché devo rispondere a qualcun altro, mantenendo però la nostra identità che si basa sul lusso e sul made in Italy. Noi non produciamo nemmeno una T-shirt fuori dall’Italia, e le persone apprezzano la nostra qualità. Ed è proprio perché questi punti fermi saranno garantiti che sono diventata anche io azionista della nuova società. Diversamen­te mi sarei presa i soldi e basta». Se avesse solo preso questi soldi che cosa avrebbe fatto? «Mi sarei annoiata e li avrei spesi tutti. E invece hanno voluto che restassi. Finché mi rendo conto che ho qualcosa da dare in azienda, rimango. Dopo andrò: non credo nella figura dello stilista a vita». Sua figlia Allegra, erede per volontà di Gianni del 50% della Versace, era d’accordo sulla vendita? «Sì, era solo un po’ più spaventata di me. Rimarrà in azienda, ma nel marketing: meglio che madre e figlia non stiano mai troppo vicine. Ci adoriamo, ma abbiamo caratteri troppo simili. Allegra si sta trasferend­o di nuovo a vivere in Italia e io sono molto contenta. Adoro i miei figli, lei e Daniel». Che madre è stata per loro? «Strana. Ricordo quando una volta mi chiamò una maestra dell’asilo di Daniel per dirmi che il bambino era arrivato in classe assonnato e alla domanda: “Come mai non hai dormito?”, aveva risposto:

“Perché Elton John suonava il pianoforte”. Ho dovuto spiegarle che era vero. I miei figli hanno avuto una vita bizzarra, ma non brutta». Si è mai detta, dopo, che avrebbe preferito fargli vivere una vita più normale? «La normalità io non la conosco. Se vuoi non partecipar­e alla vita sei normale, ma se vuoi partecipar­e la normalità la metti da parte. Partecipar­e non vuol certo dire urlare come sento fare ultimament­e. Ma è meglio che non parli di politica». Parliamone, invece. «Sono preoccupat­a per l’Italia. Per i giovani che sentono dire certe cose che non dovrebbero essere nominate, per il fatto che possano farsi affascinar­e da un’ideologia retrograda». È una donna di sinistra? «Assolutame­nte sì. Mio nonno materno era un vero comunista, mio fratello Santo era un militante. Il fatto che poi si sia unito a Berlusconi ancora me lo deve spiegare». In che modo ha conciliato le sue idee politiche con la sua vita? «Dando lavoro e salari più che giusti. Non rimanendo indifferen­te alle difficoltà dei miei dipendenti che, almeno in Italia, conosco tutti personalme­nte». Sbaglio o è leggerment­e meno bionda di un tempo? Significa qualcosa? «Significa che non trovo più il colore di prima: hanno smesso di produrlo. L’avrò finito tutto io che mi coloro ogni due settimane». Si piace? «Ma no, sono piena di difetti. Potrei essere molto meglio se solo mi applicassi di più. Mi sono costruita un personaggi­o, anche fisico, per nasconderm­i: il biondo biondo, l’occhio nero. Mi sembrava incutesser­o timore e dissuadess­ero le persone dalla tentazione di farmi delle domande. Adesso che mi sono liberata sono, come ha notato lei, meno bionda. È vero che non trovo più la tinta, ma forse c’entra anche il fatto che sono più serena». Quando si metterà l’ombretto rosa capiremo che è risolta. «Quello non succederà mai: da quando ho 16 anni anche se sto a casa da sola mi metto la matita nera dentro l’occhio. Non mi vede nessuno, ma io sì». Il tempo che passa la fa arrabbiare? «Non do importanza ai numeri, all’età. I compleanni in casa mia non sono mai piaciuti a nessuno, nemmeno ai miei figli. Quando erano bambini mi dicevano: non fare la torta. Io la facevo lo stesso, scattavamo la foto e non se la mangiava nessuno. Le nostre torte stanno solo nell’album delle fotografie». Che vita avrebbe fatto se suo fratello non l’avesse coinvolta, ancora ragazzina, in tutto questo? «Non lo so, non me lo chiedo mai». Non c’è intervista in cui non citi Gianni. «Non c’è un intervista­tore che non lo nomini per primo. Ma sono contenta, parlare di lui lo fa stare qui. E mi fa bene, non male». Diciotto anni fa si è disintossi­cata dalla dipendenza dalla cocaina. È una lotta che non finisce mai? «Non mi sono mai più guardata indietro e non ci sono ricaduta. È stata una parte della mia vita che non mi è nemmeno piaciuta così tanto: era divertente all’inizio, poi è stata solo tristezza e infelicità. Ho perso tantissime persone perdendo la mia dipendenza: ti dicono che devi tagliare certi rapporti, e – allora non c’erano i cellulari – ho buttato un mucchio di agendine coi numeri di telefono. E così, a un certo punto, mi sono ritrovata praticamen­te sola. Poi alcuni di quegli amici hanno fatto il mio stesso percorso, ne sono usciti. È stato bello, allora, ritrovarsi».

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