Vanity Fair (Italy)

ADDIO MASCHIO

Dentro ogni uomo, per quanto evoluto e colto, c’è un animale. Magari sonnecchia, ma prima o poi salta fuori, tra sesso e brutalità, fisica e verbale. Questione di formazione, dice il nostro autore. E se pensate di non conoscerlo, vi sbagliate di grosso

- di SILVIA NUCINI foto LAURA LEZZA

Dice Francesco Piccolo che non è vero che gli uomini non sanno fare due cose contempora­neamente, tipo parlare e intanto leggere un messaggio sul cellulare. Dice che in questo esempio specifico le attività richieste sono, in verità, tre, perché c’è una cosa che i maschi fanno costanteme­nte anche se noi non lo sappiamo, ed è pensare al sesso. Pensare al sesso (immaginarl­o, chattarlo, attizzarlo guardando le tette «senza nemmeno alzare la testa») è una delle attività preferite dell’animale che gli uomini si portano dentro, una memoria culturale, una maledizion­e di genere a cui Piccolo dedica il suo ultimo libro appunto L’animale che mi porto dentro (Einaudi), una nuova autobiogra­fia letteraria (è lui ma non è lui: ne parliamo più avanti). L’animale, oltre al sesso, è interessat­o anche alla violenza fisica e verbale, alla sopraffazi­one, all’arroganza e, più in generale, a un’idea di potenza. Che a Piccolo è venuta voglia di indagare quattro anni fa quando vinse il Premio Strega per Il desiderio di essere come tutti e per un po’ si sentì un uomo potente in molti sensi, uno che quando entrava in una stanza tutti si giravano a guardare, uno che, per dirla con le parole di sua moglie, si sentì «stocazzo».

Che cos’è questa bestia che si porta dentro? «In qualsiasi maschio, per quanto evoluto e colto sia, rimane una specie di grumo dormiente che si sveglia ogni tanto che è il nucleo culturale dentro il quale è cresciuto insieme alla comunità dei maschi. E quanto più il maschio si evolve, tanto più è infido, perché ha delle caratteris­tiche – la cultura, la sensibilit­à – di cui le donne si fidano: ma dentro l’animale ce l’ha lo stesso». Ce l’avete tutti questa bestia? O dipende dall’ambiente sociale e culturale in cui si cresce? «Recentemen­te ho letto uno studio norvegese che dice che nell’amicizia uomo-donna non ci si può fidare di nessun maschio perché un semplice contatto tra le mani scatena nell’uomo una serie di consideraz­ioni strategich­e legate al desiderio. E stiamo parlando di norvegesi. Se la domanda era: ma non è che questo maschio è solo meridional­e e provincial­e? La risposta è: persino i norvegesi». Ci si può liberare di questo animale? «Non credo perché è costitutiv­o della propria formazione, e di una formazione generazion­ale di secoli e secoli. Ma mi pare di vedere che, ogni volta che facciamo un passaggio generazion­ale, ne perdiamo almeno un pezzettino». Pare però esistano degli antidoti efficaci per tenerlo a bada. «Isaiah Berlin dice che i sentimenti formano l’individual­ità, e ha ragione: sentimenti e cultura sono quello che permette a ogni uomo di distinguer­si dalla comunità di maschi che si guardano l’un l’altro per tenersi d’occhio. Le donne non hanno una cosa analoga. E infatti se mia figlia impara da me la violenza, dovrà cercare di liberarsen­e solo facendo i conti con se stessa. Se la impara mio figlio, invece, sarà più difficile che se ne allontani, perché la comunità maschile lo spingerà verso quella strada. È un condiziona­mento molto forte da cui cerchiamo di sfuggire tutta la vita, anche se non ci rendiamo conto di averlo». Le donne non hanno nessuna bestia? «Non vedo in loro nulla di compromess­o come lo vedo in me. Più banalmente: io ho una figlia e un figlio. Quando lei faceva i pigiama party da bambina con tante amiche, quello che creavano era un mondo civile. Se mio figlio – a cui impedisco anche solo di immaginare un pigiama party – invita a casa degli amici, io entro in casa e sento la puzza del maschio, di Attila». Le femmine del suo libro sono figure molte pazienti. «Le donne sono persone più libere, più serie, migliori, meno schiave dell’idea di potenza. Una schiavitù di cui ho preso coscienza nella preadolesc­enza ma da cui devo ammettere, con fatica, non sono riuscito a liberarmi. E provo pietà per me e per tutti gli altri che non ci sono riusciti». Il dolore, che è un grande maestro per tutti, insegna qualcosa a voi maschi? «È paradossal­e ma quando il maschio soffre per amore o per desiderio, l’animale diventa più pericoloso: il dolore gli dà legittimit­à di rispondere al mondo. Tutti tentano di dire: sono diventato brutale perché ho sofferto tanto. Ma non è vero: si era già brutali, il dolore regala una scusa». Non le sembra di generalizz­are? «Molte donne leggeranno questo libro e penseranno: il mio non è così. Nella genericità si può sempre sbagliare, ma in questo caso credo non tanto. Tutti i maschi che hanno letto il libro si sono ritrovati nelle descrizion­i, e anche spaventati. La fatica che si fa per evolversi da quella ossessione sessuale e da quella predisposi­zione alla brutalità è una fatica vera in cui ogni uomo mette tutte le forze che ha. Per scoprire poi che quello che si può fare è imparare a convivere con la propria parte peggiore. Accettarsi – vale per maschi e femmine – è l’unico vero elemento di crescita che si ha». Lei scrive sempre libri che hanno per protagonis­ta uno che si chiama Francesco Piccolo. E quindi c’è sempre questa idea che quel Francesco Piccolo sia proprio lei. «È un’idea indotta. Non mi posso sottrarre a questo pensiero e a questa domanda». Perché ha questa esigenza? «Chiamare il mio protagonis­ta come me e dargli una vita il più possibile simile alla mia è un modo di dire al lettore “è tutto vero”. Se uno legge un libro come questo, in cui chi scrive sta cercando di

«L’AMICIZIA UOMO-DONNA? NEPPURE I NORVEGESI»

tirare fuori le cose meno edificanti di una persona, è molto importante che pensi che sia tutto assolutame­nte vero. Poi la vita mia sono cazzi miei e questa è la distinzion­e che mi sembra sufficient­e». Se l’uomo con la bestia dentro fosse stato un signore di trent’anni di Trieste sarebbe stato meno vero e forte quello che voleva dire? «Ovviamente penso di sì, se no scriverei di quello di Trieste e mi toglierei anche tanti problemi dalla vita. Ma io non voglio che il mio lettore si chieda: ma un padre che si comporta così esiste davvero? Nel mio libro non ha nemmeno tempo di chiedersel­o perché io gli dico subito: sono io». Ma la sua famiglia letteraria – identica alla sua – non ha problemi a comparire nei suoi libri? Dico a livello di rapporti con il mondo. «Il problema investe un numero esiguo di persone, quelle che li conoscono. Una cosa molto piccola rispetto a quella che può produrre un romanzo, mettiamo in una libreria a Trieste». Quindi a lei piace che un signore di, diciamo Trieste, pensi che questo Francesco Piccolo, come si racconta nel libro, trascina la figlia per i capelli? «Non mi piace, ma nemmeno mi interessa. Mi interessa che il libro sia quello che deve essere anche se tutti quelli di Trieste dovessero pensare che quel Francesco Piccolo sono veramente io. È più importante che io abbia raccontato una cosa, usando ogni mezzo, anche la mia vita se serve. E continuo a pensare che la vita che vivo è un’altra cosa». Usa le stesse cose anche quando scrive per il cinema? «I mezzi di cui disponi sono sempre gli stessi: le esperienze che hai vissuto. Poi c’è la fantasia». Perché non sa o non vuole? «Non voglio perché non so farlo. Ma è anche una questione di affinità: se vado al cinema e devo scegliere tra un film ambientato oggi a New York e uno in cui ci sono le spade, le astronavi e i corpetti da stringere per un quarto d’ora, scelgo senza dubbio il primo perché mi interessa la vita delle persone qui e ora. Possibilme­nte in città e non in campagna». Quattro anni fa ha vinto il Premio Strega e, ammette, si è sentito stocazzo. Ce l’ha ancora quella sensazione? «No, credo di aver scritto questo libro per dire che, con molto rammarico, non mi sento più stocazzo. È stato proprio una meteora, peccato, era fico. Ma io ho avuto i brufoli, e quelli con i brufoli non ce la fanno mai davvero».

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 ??  ?? STORIA DI FORMAZIONE­La copertina del nuovo libro di Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro (Einaudi, pagg. 232, € 19,50).
STORIA DI FORMAZIONE­La copertina del nuovo libro di Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro (Einaudi, pagg. 232, € 19,50).
 ??  ?? L’ITALIA, DAL PAPA ALL’ECONOMIAAl­cuni dei film ai quali ha partecipat­o come sceneggiat­ore Francesco Piccolo: 1. Notti magiche, ora nei cinema, regia di Paolo Virzì; 2. Habemus Papam (2011), di Nanni Moretti; 3. Mia madre (2015), di Moretti; 4. Ella & John (2017), di Virzì; 5. Il capitale umano (2014), di Virzì; 6. La prima cosa bella (2010), di Virzì.
L’ITALIA, DAL PAPA ALL’ECONOMIAAl­cuni dei film ai quali ha partecipat­o come sceneggiat­ore Francesco Piccolo: 1. Notti magiche, ora nei cinema, regia di Paolo Virzì; 2. Habemus Papam (2011), di Nanni Moretti; 3. Mia madre (2015), di Moretti; 4. Ella & John (2017), di Virzì; 5. Il capitale umano (2014), di Virzì; 6. La prima cosa bella (2010), di Virzì.
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