GIÙ LA MASCHERA
Per tutta la vita, fino quasi a 90 anni, con ginocchia doloranti e polsi fratturati, Ferruccio Soleri è stato Arlecchino. Poi si è ritirato e lo ha chiamato il cinema. Ma il teatro gli manca, anche se adesso può risparmiarsi di correre per le scale
Con la capacità di concentrazione di un fachiro, la disciplina di un atleta, la fantasia di un saltimbanco, Ferruccio Soleri da Firenze ha vissuto molte ore della sua lunga vita (89 anni compiuti il 6 novembre) indossando una maschera, quella di Arlecchino. Lo ha interpretato 2.283 volte, un record che sta nel Guinness dei primati. Nel maggio scorso, l’ultima replica, al Piccolo Teatro di Milano. Da tempo la famiglia, in particolare la moglie Bianca, desiderava che smettesse. E mentre mi offre un tè (quello che beve da anni Ferruccio, keemun cinese, noto per essere antiossidante e antinfiammatorio), Bianca racconta: «Lo andavo a prendere in camerino e ogni sera aveva qualcosa di rotto o dolorante: una volta il ginocchio, una volta il polso, una volta il gomito. Alla fine si è convinto che era arrivato il momento di lasciare». Ma poi è arrivata una telefonata da Betta Boni, nipote di un cugino e assistente di Paolo Virzì. Dice a Bianca: «Non chiedermi perché, Virzì ha fatto il nome dello zio, per il suo nuovo film. Lo chiamerà». E così, Soleri si è trovato sul set di Notti magiche. Non tutti lo avranno riconosciuto subito (in fondo, anche chi lo conosce bene è abituato a vederlo vestito da Arlecchino): Soleri interpreta un regista «maestro dell’incomunicabilità», ispirato a Michelangelo Antonioni. Un piccolo ruolo poetico ma soprattutto una sorpresa tardiva per uno che al cinema in passato aveva fatto poco, per esempio lo strano film Italienisches Capriccio, girato a Berlino Est nel 1961, di cui oggi Soleri più che altro ricorda che «fu allora che smisi di fumare, perché negli studios non si poteva».
In Notti magiche di Virzì il suo personaggio diventa cieco. Suo padre lo era davvero. «Perse un occhio durante un incidente in montagna quando era ancora ragazzo, e poi un altro pochi anni dopo: gli si conficcò una chiave nell’occhio rimasto. Fu uno dei fondatori dell’Unione italiana ciechi, me lo ricordo leggere i libri in braille e sgridare noi figli se usavamo in modo troppo disinvolto espressioni che contenevano il verbo vedere». Lei ha tre figli, una da Bianca e altri due da un matrimonio precedente: nessuno lavora nello spettacolo. Le dispiace? «Gaia, la primogenita, da ragazza per un attimo ci ha pensato. Ma non sono dispiaciuto che, alla fine, abbiano scelto altre strade. È un lavoro troppo difficile, essere bravi non basta, ci vuole anche tanta fortuna». Lei come ci è arrivato? «Da piccolo avevo cercato di farmi prendere da un circo vicino a casa e quando mi spiegarono che al circo lavoravano solo quelli che già appartenevano a una famiglia del mestiere, io mi misi dietro una tenda dove provavano a osservarli per giorni. Poi, a casa rifacevo tutto da solo: salti, capriole, camminate sulle mani. In seguito ho giocato a calcio: ero capocannoniere della Rufina. Stavano per vendermi al Cosenza, in Serie B, ma non mi andava perché a Cosenza non conoscevo nessuno». Leggo che ha frequentato la facoltà di Matematica e Fisica. Davvero? «Davvero. Ma la cosa più importante in quegli anni per me fu il teatro universitario. Tra i miei compagni c’erano Paolo Poli, Ilaria Occhini, Renzo Montagnani. E Beppe Menegatti, futuro regista e marito di Carla Fracci: sono stato il loro testimone di nozze. Con Beppe andammo insieme a Roma, a frequentare l’Accademia d’arte drammatica». La prima volta in scena come Arlecchino per la regia di Giorgio Strehler come si sentiva? «Terrorizzato. Eravamo a New York, in una delle tournée del Piccolo Teatro. Per le regole del sindacato americano, Marcello Moretti, l’Arlecchino in carica, doveva avere un sostituto una volta alla settimana. Una voce fuori scena annuncia il cambio prima dello spettacolo, dalla platea tutti quelli che aspettavano il leggendario Moretti fanno “Buuuuh”. Io tremo dietro le quinte, Paolo Grassi (il direttore del Piccolo Teatro, ndr) mi urla: “Per Dio, Soleri!”, e io corro in palcoscenico. È andata». Strehler era molto duro con gli attori. «Sì, ma era anche intelligentissimo, capiva tutto prima di noi. E quella durezza è stata il motivo del successo di tanti. Sono stato molto felice di lavorare con lui, di far parte del Piccolo, fin da quando arrivai a Milano, credo nel ’56, e andai ad abitare in un appartamentino in via Rovello, a pochi metri dal teatro. Della città, per anni, ho visto poco: solo via Rovello». Avete portato Arlecchino ovunque. «Sì, anche in Australia. Ho un taccuino con tutte le piazze straniere (me lo mostra). Vede? Nizza: 3 repliche, Tolone: 1… E così via. Di tutti i posti dove siamo stati, amavo in particolare la Spagna, un po’ perché riuscivo a comunicare e un po’ perché avevo tanti amici, per esempio il ballerino Antonio Gades. In Cina non riuscivo nemmeno a cambiarmi in camerino a fine spettacolo: si riempiva di gente che veniva a baciarmi i piedi, cose da matti. Una volta, a fine spettacolo, a Londra ci portarono a salutare la regina Elisabetta: stava cenando e si alzò da tavola, rimasi molto colpito». Il complimento più bello? «Quello di Laurence Olivier, a Londra. Venne a fine spettacolo e mi disse: “Stasera avrei voluto essere te, su quel palcoscenico”». E lei non avrebbe mai voluto essere Laurence Olivier, ovvero interpretare mille ruoli anziché uno solo per tutta la vita? «Sì e no. Non so quale altro personaggio avrebbe potuto darmi la gioia e le soddisfazioni che mi ha dato Arlecchino». Arlecchino è stato un po’ come il suo migliore amico? «Sì, l’amico di una vita felice». Adesso il teatro le manca? «Mi manca il rapporto con il pubblico, non mi mancano le ore di esercizio. Prima, solo per il fiato, facevo quattro piani di scale due volte al giorno di corsa. Adesso non faccio un tubo».