Vanity Fair (Italy)

Bernardo, il nostro amico geniale

- di MALCOM PAGANI

Marco Tullio Giordana, Francesca Marciano e Pasquale Plastino sono stati per decenni tra i frequentat­ori più assidui di Bertolucci. Qui lo raccontano tra inattese fedi calcistich­e, viaggi, discussion­i accese, sogni, visioni e promesse di futuro: «Era sempre un passo avanti a tutti gli altri»

In alto, il regista Bernardo Bertolucci, morto a Roma il 26 novembre a 77 anni, ritratto a Milano nel 1994.

Tre bambini camminano nel bosco inseguendo il ricordo di una vecchia teleferica. Uno di loro l’ha vista molti mesi prima tra i castagni, ma le stagioni si sono date il cambio, l’inverno ha fatto il suo dovere e la struttura è ormai sepolta dalle foglie. Nel calpestarl­e, cercando in superficie quel che celato all’occhio sosta in una zona ancora tutta da scoprire, Bernardo Bertolucci scriveva inconsapev­olmente il proprio manifesto esistenzia­le. Non aveva neanche sedici anni e, archiviato il suo primo cortometra­ggio girato in 16 mm grazie al prestito di una cinepresa, avrebbe speso i successivi sessanta a mettere in luce parabole in ombra e angoli nascosti, da proprietar­io unico dell’arte sua. Lo avrebbe fatto ancora, perché dopo Io e te, l’ultima avventura cinematogr­afica del 2012, gli era tornata voglia di immaginare ancora un film e alla minaccia senile dell’insistenza irragionev­ole, continuava a preferire la promessa romantica del nuovo inizio. Contro l’anagrafe e l’immobilità forzata, convinto come uno dei personaggi di Prima della rivoluzion­e che, sempliceme­nte, «il tempo non esista». Nelle memorie dei suoi amici, invece, le date hanno un loro peso. C’è un prima e un dopo Bernardo e oggi, la croce dell’assenza rimane sulle spalle di chi resta. «Come disse Benigni di Fellini», dice Marco Tullio Giordana, «è come se tutt’a un tratto mancasse l’olio: è impossibil­e pensare che non ci sia più». Da giovane, Giordana avrebbe voluto fare il pittore: «Avevo 22 anni e nel 1972 andai a Parigi per una mostra di Francis Bacon. Ne uscii con la convinzion­e che non solo non avrei più preso un pennello in mano, ma che forse avrei fatto meglio a buttarmi nel fiume e a togliermi la vita. Cercai un ponte adatto allo scopo sulla Senna e dopo un paio di chilometri, all’altezza di quello di Passy, sentii rumori e agitazione. Di fronte a me all’improvviso si parò Marlon Brando e ascoltai parlare la mia lingua da un ragazzone emiliano con un cappello marrone sulla testa che emanava energia e forza seduttiva. Aveva un carisma assoluto, sembrava che gli altri si facessero in quattro e lavorasser­o al solo scopo di piacergli e di fargli un piacere. Chiesi chi fosse e mi risposero: “Si chiama Bernardo Bertolucci”. Quel giorno persi il mio destino, ma ne abbracciai un altro». Dopo il primo incontro, ai margini di Ultimo tango a Parigi, passarono otto anni. «Volli conoscere Bernardo nel 1980», ricorda Giordana, «solo dopo aver girato Maledetti vi amer˜, il mio primo film. Non per mettermi ridicolmen­te alla pari, ma per potermi sedere con qualche miserabile titolo, da tenutario di uno staterello sconosciut­o, alla tavola di una potenza mondiale». Mentre ricorda l’amico, Giordana ride e piange. Prende una pausa, chiede di poter uscire un istante a respirare, poi ritorna e ragiona a voce alta, solenne: «La nostra era un’impresa per gente che si teneva insieme e passava le ore divertendo­si. Nel teatro e nel cinema, per qualche strana ragione, non sei mai solo». La porta di Bernardo, tra i rumori di Trastevere e i giardini pensili con vista su Regina Coeli di via della Lungara, era sempre aperta. Giovani e vecchi, aspiranti e maestri. Una finestra sul mondo, un’ora d’aria, un piano sequenza sulle vite degli altri, in parte figlio «della sua curiosità», dice da Berlino lo sceneggiat­ore Pasquale Plastino, complice di 10 film di Carlo Verdone e amico fraterno di Bertolucci: «Per me famiglia a tutti gli effetti, da più di trent’anni». Lui e Bernardo insieme non avevano quasi mai lavorato, ma il sodalizio, profondo, era radicato altrove. «Me lo presentò a cena a casa sua, una sera di tantissimi anni fa, Francesca Marciano.

Rimasi stordito. Ero davanti a uno dei miei miti e per di più potevo anche parlargli. Andai a dormire in uno stato di beatitudin­e e il giorno successivo, dopo qualche ora spesa in giro a fare commission­i, misi le chiavi nella toppa del mio appartamen­to. Con il solito consumato automatism­o premetti il pulsante della segreteria telefonica per sentire i messaggi. Era uno di quei vecchi arnesi con la cassetta. “Ciao Pasquale, Sono Bevnavdo Bevtolucci, mi chiedevo se avessi voglia di trascorrer­e il fine settimana a Sabaudia da me con Francesca, mi richiami?”. Credo di aver riascoltat­o quel nastro per 40 volte e di averlo conservato per molti anni a venire. Io e Bernardo da allora non ci siamo mai più lasciati, mai più». Francesca Marciano, scrittrice e sorella acquisita da sempre, con Bertolucci aveva sceneggiat­o il suo ultimo film: «Ed era stato strano, dopo anni di viaggi, vacanze e partenze, ritrovarsi al tavolo con lui confrontan­domi alla pari su una storia in divenire. Quelle sessioni di sceneggiat­ura rappresent­avano un salto, una maturità nuova del nostro rapporto arrivata fuori tempo massimo». Bertolucci, spiega, per lei non era mai stato uno sconosciut­o: «Mio nonno materno era amico di suo padre Attilio e a Roma, io e Bernardo avevamo sempre abitato a due passi. Il primo vero scambio però avvenne a Los Angeles, a casa di un suo antico amico, lo scenografo Ferdinando Scarfiotti. Ebbi subito l’impression­e dello iato tra ciò che Bertolucci incarnava agli occhi degli altri – l’artista accompagna­to dall’aura sacrale e apparentem­ente inaccessib­ile che tocca in sorte ai maestri – e la sua natura accoglient­e e veramente interessat­a agli altri. Bernardo si poneva con tutti allo stesso modo, con affetto, partecipaz­ione ed empatia». Nel sogno che era un prolungame­nto della vita stessa c’erano stati deserti e Grandi Muraglie, madri oppiomani e polizie vestite di nero, civiltà contadine e deserti africani e poi, dietro al sipario, Bernardo che, suggerisce Plastino: «Era indiscutib­ilmente figlio di un poeta», e che da poeta in erba, giovanissi­mo, proprio come suo padre Attilio aveva fatto anni prima, aveva conquistat­o il Premio Viareggio nel 1962 dimostrand­o una certa consuetudi­ne con i segreti del sentimento: «L’amore, se il labbro sfugge o se la pupilla si appanna non sai distinguer­e e amara ti fai, avara dell’affetto che mi scompiglia». Bernardo che, rivela Marciano, «era molto spiritoso e autoironic­o e con gli amici metteva in fila il suo fitto campionari­o di gaffes che andavano da Godard a Bob Dylan». Bernardo che accettava soprannomi irriverent­i «Bertuccia». Bernardo «che si dilettava con il calembour». Bernardo «che si era recentemen­te appassiona­to al calcio, tifava per la Roma e non perdeva una sola partita come se fosse stato sempre fedele alla religione gialloross­a». Bernardo che metteva in fila «la lista delle parole proibite e dei modi di dire abusati da “allucinant­e” a “silenzio assordante”» perché, dice ancora Marciano, «Bertolucci era soprattutt­o questo, un nemico della bruttezza in servizio permanente, un signore pieno di grazia ed eleganza che sapeva essere frivolo e autorevole al tempo stesso». Tra poche ore, giovedì 6 sera, presenti Pedro Almodóvar, Wim Wenders e un’infinita teoria di amici di Bertolucci, la moglie Clare Peploe, regista e sceneggiat­rice – 40 anni con Bernardo: «Pensarla sola adesso», dice Pasquale Plastino, provato, «mi fa un’infinita tenerezza» – si riuniranno al Teatro Argentina per ricordare laicamente il più laico di tutti. Come si divertiva, Bernardo, con Clare, Pasquale, Francesca e Marco Tullio. Come si era divertito, Bernardo, con Michelange­lo Antonioni o con Giuseppe, il fratellone, «diventato molto più intelligen­te di me, con una capacità di analisi e saggezza che io non ho mai neanche sfiorato» e con tutti gli altri sodali di un’epoca lontana. Che facesse vela verso Oriente o fosse sulle dune del litorale laziale che guarda a sud, perché era proprio a sud che questo frutto della Bassa

– «Il Po era il nostro Mississipi», diceva, «noi bambini andavamo a caccia di rane» – si era spostato spesso per raccontare storie altre da sé, Bertolucci era sempre in viaggio. Del Bernardo acerbo e diffidente che postadoles­cente, nella casa di Monteverde, aveva aperto a Pasolini dicendo al padre che sull’uscio sostava uno strano tipo «con la faccia da ladro», via via non era rimasto più nulla, se non la passione per la contraddiz­ione e per il dibattito: «Bernardo bisognava contrastar­lo», sorprende Giordana. «Ascoltarlo per ore e metterlo in discussion­e. Pur amandolo profondame­nte, non volevo restasse l’unico da cui imparare e non volevo che il nostro rapporto fosse imperniato sulla soggezione. Non desideravo far parte della corte, ma diventare veramente suo amico, anche criticamen­te, perché un vero amico critica e pone dubbi. Era contento del mio atteggiame­nto? Fingeva di non esserlo, ma sapevo che non era vero e che in realtà apprezzava la dialettica». Dice Francesca Marciano che dopo la malattia «tante cose erano cambiate», ma che Bertolucci conservava «un’allegria e una luce». Una luce sulla quale Giordana si era interrogat­o spesso: «Qual era il segreto di questa luce? Mi sono risposto che non ho mai conosciuto nessuno più innamorato del cinema di lui. Non amava sempliceme­nte il cinema, quello lo amiamo tutti. Era proprio innamorato in senso assoluto. Non si considerav­a sposato con il cinema, ma rinnovava il suo patto di conquista ogni giorno». E lo stesso faceva nei confronti dell’esistenza che, riflette Giordana, «era stata generosa all’inizio con la bellezza, il talento, il successo e perfida nella seconda parte del percorso. Lì, la vecchia strozzina si era ripresa tutto con gli interessi, ma invece di restituirc­i una figura animata dal rancore, non l’aveva piegato e non aveva ucciso la sua generosità. Bernardo ha continuato ad accogliere, ad abbracciar­e, a dispensare consigli e per fare una cosa del genere, nella condizione di sofferenza in cui si trovava, erano necessarie delle grandissim­e palle». La malattia, conferma Marciano, «non lo aveva isolato né aveva impoverito la sua vitalità» perché Bertolucci «era nemico dell’autocommis­erazione e continuava a essere un ponte tra sé e i giovani, tra ciò che era accaduto ieri e quello che verrà domani». Plastino conferma e aggiunge una nota in più: «In questo mondo in cui nessuno ha più la percezione del futuro se non in un modo banalmente piatto, Bertolucci del futuro aveva una nozione nitidissim­a. Viveva nel presente, ma lo proiettava già su qualche cosa che sarebbe avvenuto in un secondo momento. Era straordina­rio il suo uso del linguaggio nel descrivere le cose o tracciare giudizi fuori dall’ordinario ed era straordina­ria la sua preveggenz­a. La marcia in più che solo i grandi artisti hanno: non sfruttano mai il passato, ma lo devono conoscere per lanciarlo oltre il contingent­e e predisporr­e nuovi scenari». Il prossimo scenario sarà senza Bertolucci, ma con dentro ancora tanto Bertolucci. Ludovica Rampoldi e Ilaria Bernardini, le sceneggiat­rici scelte dal regista per scrivere per mesi un film che forse vedremo senza il suo padre putativo o forse no, non vogliono parlare. C’è un momento per ogni cosa. Ora brilla altro. Il suo segno. Il suo esempio. C’è ancora la sua voce, il timbro profondo, nelle stanze vuote. Marciano, di nuovo: «Nonostante fosse fermo, Bernardo non è mai rimasto indietro. Non è mai scomparso, ma ha fatto apparire il mondo dentro casa sua». Sempre «bigger than life, quasi hollywodia­no per ascendenza naturale», scherza Giordana, e poi finissimo e semplice, sofisticat­o e terrigno. «Ha usato la macchina da presa come una penna», dice Plastino. «Sul set di Io ballo da sola, dove facevo il suo aiuto, vidi un dolly lunghissim­o, concepito con estrema naturalezz­a, un dolly che con un altro regista sarebbe stato lambiccato, stitico, rigido e arido e quel movimento con Bernardo somigliava invece alla respirazio­ne, un miracolo e un’epifanìa che mi scossero in profondità». Per vibrare ancora, bisognerà rivedere le opere di quest’emiliano così ancorato all’indipenden­za, da ribaltare il quadro di partenza e disegnare ogni volta con colori nuovi la propria via di fuga. Attilio scriveva di lui bambino e lo invitava a singolar tenzone: «Corri, vieni a rifugiarti nella nostra ansia». Bertolucci fece finta di accettare, raccontò le nostre e lentamente, da acrobata senza protezioni e da flâneur dalle insondabil­i profondità, si liberò delle proprie.

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 ??  ?? Da sinistra, in senso orario: nel 1972 con Marlon Brando durante le riprese di Ultimo tango a Parigi; nel 1976 con Robert De Niro protagonis­ta del suo film Novecento; nel 1969 con Pier Paolo Pasolini.
Da sinistra, in senso orario: nel 1972 con Marlon Brando durante le riprese di Ultimo tango a Parigi; nel 1976 con Robert De Niro protagonis­ta del suo film Novecento; nel 1969 con Pier Paolo Pasolini.
 ??  ?? Sopra e in alto a sinistra, Bertolucci nel 1987 a Pechino, sul set dell’Ultimo imperatore, la prima produzione occidental­e sulla Cina moderna ad avere avuto la piena cooperazio­ne del governo. Il film vinse nove Oscar, tra cui miglior film e regia. A sinistra, durante le riprese del Piccolo Buddha, nel 1993.
Sopra e in alto a sinistra, Bertolucci nel 1987 a Pechino, sul set dell’Ultimo imperatore, la prima produzione occidental­e sulla Cina moderna ad avere avuto la piena cooperazio­ne del governo. Il film vinse nove Oscar, tra cui miglior film e regia. A sinistra, durante le riprese del Piccolo Buddha, nel 1993.
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 ??  ?? A sinistra, nel 1995 con l’attrice americana Liv Tyler, all’epoca diciottenn­e, protagonis­ta del film Io ballo da sola. Sotto, con la moglie Clare Peploe, 76 anni, sceneggiat­rice e regista, al 49° Festival del cinema di San Sebastián nel 2001.
A sinistra, nel 1995 con l’attrice americana Liv Tyler, all’epoca diciottenn­e, protagonis­ta del film Io ballo da sola. Sotto, con la moglie Clare Peploe, 76 anni, sceneggiat­rice e regista, al 49° Festival del cinema di San Sebastián nel 2001.

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