Vanity Fair (Italy)

Max che voleva essere Maxine

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Qualcuno continua a pensare che essere rappresent­ati in television­e non sia poi così importante; che, in fondo, «sono solo serie tv». In realtà bisognereb­be insistere nell’affermare il contrario: essere rappresent­ati vuol dire esistere, divenire visibili, sentirsi riconosciu­ti. Quel che appare sui piccoli schermi entra nelle nostre case: smettiamo di temerlo, e finiamo per familiariz­zare anche con ciò che sembra distante anni luce dalla nostra quotidiani­tà, ciò che abbiamo messo in dubbio o non abbiamo compreso. Per questo una television­e che promuova la rappresent­azione delle minoranze, con riferiment­o non esclusivo ma forte alla comunità Lgbtq, appare oggi essenziale, e show come Butterfly – la miniserie inglese in tre parti che andrà in onda su FoxLife a partire dal 17 dicembre, già preceduta da polemiche – ne mostrano la potente funzione sociale al di là dell’intratteni­mento. La vicenda è quella di Max Duffy, undicenne transgende­r (straordina­ria l’interpreta­zione del giovane Callum Booth-Ford) che vuole – deve – poter essere Maxine a dispetto della sua anatomia. Sua madre, Vicky, desidera il bene della figlia ed è determinat­a ad avere «una bambina felice»; suo padre, Stephen, è invece legato ai retaggi della mascolinit­à e del cosiddetto «binarismo di genere», dunque trova la caparbietà di Maxine nel negare il suo sesso di nascita disturbant­e, talvolta quasi repellente, generando dolore nella figlia e nell’intera famiglia. Scritto dal premio Bafta Tony Marchant, Butterfly mette in scena, insomma, una questione di grande attualità classifica­ndosi non soltanto tra le serie più interessan­ti dell’anno ma anche tra le più umane e autentiche, toccando le corde di un conformism­o per nulla innocuo, anzi capace di mietere vittime pur di conservare e mantenere la facciata.

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