Vanity Fair (Italy)

IL DOMANI NON MUORE MAI

Per anni al cinema è stata il capo di James Bond, adesso diventa una spia, anche se «non in senso classico». E dopo una lunga filmografi­a, con Oscar, l’attrice oggi non sogna premi alla carriera, ma solo nuovi personaggi. Come quelli che le regala un cert

- di ALESSANDRA DE TOMMASI foto J.R. MANKOFF

Non esiste data di scadenza per la curiosità. E Dame Judi Dench, 84 anni splendidam­ente portati, ne è la dimostrazi­one: si diverte a studiare qualsiasi oggetto intorno a sé, che sia un semplice foglio di carta bianco o il registrato­re di quest’incontro, in occasione del Festival di Zurigo. «Siamo sicuri che non sia una gomma per cancellare? Sembra davvero minuscolo». Mentre parla sfiora l’interlocut­ore, quasi a verificare che sia reale e non frutto di un’immaginazi­one fervida come la sua. E non riesce a star ferma, tranne quando pensa al futuro, allora – con le mani giunte – punta gli occhi felini davanti a sé e trattiene il fiato: «Ho una sola paura, che quello in corso sia il mio ultimo atto». La pensione? Non scherziamo: «La gente si ritira per aver tempo di dedicarsi a quello che ama, io non ne ho bisogno, faccio già ciò che mi pare e che mi rende felice, ossia recitare e girare il mondo con il mio lavoro». Il nuovo capitolo della carriera di questo Premio Oscar (lo vinse nel 1999, per Shakespear­e in Love) ha debuttato al Festival di Toronto e la vede in versione granny spy, nonna spia, per Red Joan, storia vera della più longeva agente inglese al servizio del Kgb.

«MIO MARITO MI DISSE: VOGLIO VIVERE CON UNA BOND LADY. E IO FECI 007»

Curioso che, dopo James Bond, ancora l’attragga il mondo dei servizi segreti. «In realtà non ne sono mai stata attratta: è stato mio marito (l’attore Michael Williams, scomparso nel 2001, ndr) a insistere perché accettassi la parte di M nella saga di 007. “Voglio vivere con una Bond Lady”, mi diceva, e ho pensato fosse divertente. In Red Joan non si tratta di spie in senso classico, la protagonis­ta è una donna ordinaria che vuole fare la cosa giusta e quindi affida ai russi dettagli sulla costruzion­e della bomba atomica. Se tutti possiedono la stessa tecnologia, allora nessuno la usa: il suo pensiero è più o meno questo». Continua a colleziona­re premi in giro per il mondo, da Zurigo a San Sebastián. Ha una casa abbastanza grande da contenerli tutti? «Sono tra i miei scaffali pieni di libri, nel salotto di casa, ma ultimament­e ogni volta che ricevo un riconoscim­ento divento nervosa, specialmen­te se è un omaggio alla carriera. Penso subito: vuol dire che è già finita? L’idea di non lavorare più mi intristisc­e». Come la combatte? «Ringrazian­do il cielo per ogni nuovo ruolo che mi offrono. È tutta fortuna, come continuo a ripetermi. Se ottengo un premio per i presunti meriti passati non vuol dire che continuerò a fare belle cose: spero di sì, ovviamente, ma non lo saprò mai, visto che non rivedo le mie performanc­e. Troppo stress, sarei ipercritic­a». Paura del fallimento? «Sono vecchia scuola, ma accetto il rischio, so che da un momento all’altro puoi fare un passo falso». La assale mai la nostalgia, quando si guarda indietro? «A volte, ma solo ripensando al divertimen­to che ho provato sul palco, soprattutt­o agli inizi. Ho fatto parte della prima compagnia che è sbarcata nell’Africa occidental­e ed è stato terrifican­te, però al tempo stesso gratifican­te. Rappresent­avamo le opere di Shakespear­e ma senza riuscire mai a finire un atto prima che qualcuno irrompesse sul palco per interagire con noi. Quell’entusiasmo così genuino, misto alla sorpresa del pubblico, mi è rimasto impresso per sempre». Il suo debutto, d’altronde, è stato all’insegna del Bardo, da cui non sembra volersi staccare. «Infatti ne interpreto la moglie Anne Hathaway in All Is True, prossimo film del mio amico Kenneth Branagh. Gli devo molto, compreso l’assoluto divertimen­to di essere a capo dei lepricani con meraviglio­se orecchie a punta. Succederà in Artemis Fowl, che mi vede in scena nei panni del comandante Tubero, ancora una volta diretta da lui. Chi lo avrebbe mai detto? Ecco, è questo il bello del cinema: neppure nei miei sogni più audaci mi sarei immaginata una cosa simile». Il prossimo passo allora potrebbe essere Harry Potter, o meglio il suo prequel Animali fantastici, non pensa? «Perché no? Purché mi vengano date la possibilit­à e la libertà di cambiare pelle, io ci sto». Oltre alla recitazion­e, che cosa la rende felice? «Amo leggere, anche se ultimament­e riesco a farlo poco perché gli occhi non sono più quelli di una volta. E questo, purtroppo, m’impedisce anche di dipingere tanto quanto vorrei, ma continuo a farlo». Appende in casa i quadri, magari accanto ai premi? «Assolutame­nte no: una volta finiti li sbatto via, in garage». Ha raccontato che un produttore a un provino le ha detto che non avrebbe mai fatto fortuna come attrice perché il suo viso era tutto sbagliato, per non parlare della voce. «Non è stato l’unico: una sera una signora venne persino dietro le quinte per dirmi che sarebbe tornata a vedermi a teatro un’altra volta, quando avessi riacquista­to la voce. Pensava avessi il raffreddor­e». Invece rieccola alle prese con lo stesso musical di allora, Cats, ma stavolta al cinema. «Che dire? Sono una donna fortunata». Modestia a parte, crede che le donne abbiano più voce in capitolo rispetto al passato? «Da giovane, io e le colleghe non ne abbiamo mai parlato, pur sapendo che Hollywood è sempre stato un ambiente maschile. Un salario equo? Sembra una chimera, le cose stanno cambiando, ma troppo lentamente».

«UN SALARIO EQUO? SEMBRA UNA CHIMERA, LE COSE CAMBIANO TROPPO LENTAMENTE»

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