Vanity Fair (Italy)

TI SCATTERÒ UNA FOTO

«Posso dirti cose che non posso dirti in italiano, ma in romano sì», canta Carlo Luigi Coraggio, in arte Carl Brave. Le sue canzoni di successo, tra Polaroid e Fotografia, sono istantanee accurate dei «pischelli» Millennial­s (ma anche i trentenni lo seguo

- di SILVIA NUCINI foto MANUEL COEN

Se il nome porta il destino, era scritto che Carlo Luigi Coraggio avrebbe avuto una vita non banale. Ventinove anni, ex promessa del basket (serie B, nazionale), a 22 anni fa appello alla virtù contenuta nel suo cognome (che in arte diventerà Brave) e molla tutto per darsi alla musica. Il fatto che il suo primo album da solista Notti brave sia disco di platino certifica che ha avuto ragione. Ora quell’album ha anche un sequel che si chiama Notti brave “After” sulla cui copertina Carlo-Carl (anche il nome si è inglesizza­to), sta seduto nel buco del Pantheon. Perché c’è una cosa fondamenta­le da dire su di lui: che è molto romano. «Trasteveri­no, per la precisione. Anche se sono nato a viale Marconi». Inezie, ma solo per noi stranieri. Nato dal rap, passato dalla trap («non era cosa»), transitato attraverso l’indie, ora – come tutti – rifugge ogni catalogazi­one («pe’ dillo giusto devi usa’ troppe parole») e rispolvera una parola che sembrava dimenticat­a «cantautora­to, questo faccio». I suoi testi sono istantanee così accurate della vita dei ragazzi («pischelli») che andrebbero studiate da chi vuole capire qualcosa delle generazion­i nate sul bordo del millennio. Non a caso il suo primo successo (con Franco 126) si intitolava Polaroid, e l’ultimo (con Francesca Michielin e Fabri Fibra) Fotografia. Tra l’uno e l’altro sono passati solo due anni «ma sembrano dieci», dice il cantante. Quando ha capito che qualcosa stava succedendo? «Il primo concerto di Polaroid l’abbiamo fatto nel sottoscala bruttissim­o di un locale che si chiama On the Rocks, uno di quelli in cui gli americani vanno a spaccarsi di cocktail. Sono venuti 400 ragazzini, e non ce lo aspettavam­o. La nostra musica, che caricavamo su YouTube della serie o la va o la spacca, era entrata nel giro romano. Ma forse la sensazione più nitida che le cose stavano andando ce l’ho avuta al festival Mi Ami, dove 1.500 milanesi cantavano le nostre canzoni». Nel brano Posso con Max Gazzè canta: «Posso dirti cose che non posso dirti in italiano, ma in romano sì». C’è molta, molta Roma nei suoi pezzi. «Io racconto quello che faccio e vivo, la gente lo sente: la sincerità paga. Penso che la vita di un ragazzo romano e di uno milanese non siano poi così diverse, cambiano solo i nomi, le parole che usiamo, ma famo tutti le stesse cose. Penso anche che l’eterna rivalità tra le città non esista più, ma che ci sia un grande abbraccio, che passa anche dalla lingua: a Milano si dice daje, a Roma si dice sbatti, ci contaminia­mo». L’ascoltano solo i ragazzini? «No, no. Il mio pubblico va dai 16 ai 30 anni. Con certe canzoni si abbassa, soprattutt­o per i video, come quello di Fotografia in cui siamo cartoni Simpson o quello di Posso in cui siamo Animoji dell’iPhone X. Se mi ascoltasse­ro solo bambini mi darebbe fastidio perché io bambino non sono più. Ma succede più facilmente se fai trap. I trapper – coi capelli rossi come Sfera, con le treccine come Ghali, con gli anelli e i tatuaggi come la Dark Polo Gang – sembrano dei personaggi dei cartoon, dei supereroi. E hanno quel che di trasgressi­vo che ai ragazzini piccoli piace, anche se non capiscono davvero i testi». I testi trap parlano più o meno tutti delle stesse cose: soldi, scarpe, droga, ragazze. «Le tematiche della trap sono precise, e tu devi raccontarl­e meglio di come fanno gli altri. E non è facile per niente. La trap è il punk dei nostri giorni. Anche dei punk si diceva che non sapevano suonare e che erano fatti come pigne. La trap ha portato anche un’estetica che all’inizio sembrava non avere niente a che fare con l’Italia, ma adesso ha preso piede: basta guardare Instagram. Io ho smesso di fare trap perché mi interessav­a parlare di altre cose». A lei piace scrivere d’amore. E non sempre felice. «Parlo dell’amore di tutti i giorni di tutti, che non è l’amore del film hollywoodi­ano, della principess­a e del principe azzurro, ma è un amore normale, fatto di bugie, di scuse, di scazzi, tradimenti e pali (due di picche, ndr). L’amore che non è né bello, né brutto: è così». Ma perché proprio l’amore? «Perché è quello che vivo quotidiana­mente dal liceo: basket, amici, amore. Sono rimasti gli amici e l’amore». È fidanzato? «Sì, da un anno e due mesi, con Eleonora. Non viviamo insieme perché è presto: è un passo troppo importante. Ho convissuto già con una ragazza per due anni, a Milano. Ed è andata bene e male. Uno dei problemi è che io lavoro sempre, soprattutt­o di notte». Prima cantava con Franco 126. Perché vi siete separati? «Nasciamo come artisti singoli, ci siamo conosciuti perché stiamo insieme in una love gang e abbiamo cominciato a “feattare” tra di noi e poi ognuno ha preso una sua strada musicale». Siete in buoni rapporti? «Scialla». Tanti anni da sportivo le hanno insegnato qualcosa che si è portato dietro?

«La disciplina. Per 15 anni mi sono allenato 2 volte al giorno e questa idea di provare e riprovare mi è rimasta addosso. E poi la capacità di stare in un gruppo: anche suonare è uno sport di squadra». Ma perché ha smesso con il basket? «A un certo punto mi sono accorto che non avevo voglia di andare agli allenament­i, mi annoiavo. E così ho detto basta. Come ho detto basta alla facoltà di Scienze della comunicazi­one: non faceva per me». Niente sport, niente studio, non ancora musica: cosa faceva? «Tante cose: lavoravo al mercato, facevo il fonico per gli altri. Guadagnavo 25 euro a traccia, e su ogni traccia ci stavo anche 10 ore. Poi sono andato a Milano a studiare musica, e ho capito cosa volevo fare. Non ho una formazione musicale tradiziona­le, non sono stato il bambino che suonava il pianoforte. Da piccolo l’unico mio rapporto con la musica era fare un gioco: ascoltare canzoni alla radio e immaginare come avrei potuto farle più belle, ma tutto nella mia testa. Poi ho cominciato a scrivere rap. Ma anche diari e sogni lucidi che mettevo sulla carta per cercare di capirli». Ha mollato sport, studi, fidanzate. Alle canzoni rimarrà fedele? «Credo di sì. Il mio blackout con la musica l’ho già avuto: a 19 anni ho perso Niklas, un amico con cui cantavo. È morto in un incidente di moto, per me è stata una cosa enorme e per un anno non ho cantato né suonato né scritto. La morte e il dolore che lascia sono qualcosa che ti fa capire i comportame­nti e le paranoie degli altri, e anche le tue follie». È una persona serena adesso? «No, non lo sono. Dentro di me ci sono due parti: una calma e una agitata. Quella agitata mi aiuta a creare, scrivere, fare uscire le cose. Quella serena non la vedo quasi mai: se non faccio niente mi annoio». Che effetto le fa la notorietà? Anche volendo il suo metro e 95 è difficilme­nte mimetizzab­ile. «Essere riconosciu­ti all’inizio ti fa piacere perché vuol dire che lavori bene, ma c’è anche il lato meno bello, il non poter uscire senza che ti rompano i coglioni. E poi vedi che ci sono persone che sono maleducate, che ti trattano come un oggetto, una foto da postare su Instagram per avere tanti like, anche se non ti conoscono. Mi dicono: oh sei famoso? Fai un video in cui saluti mia figlia, mia sorella, la mia fidanzata». Il cellulare e tutto quello che ci sta dentro sono molto presenti nelle sue canzoni. «Certo, è la vita di adesso. Io ho vissuto il ponte tra il niente e l’inizio della rivoluzion­e digitale. Il mondo dei social è proprio un mondo a parte, quello in cui tutti si fanno vedere. Il Grande Fratello è andato a picco perché il vero grande fratello sono i social. Sali sul treno e provi a stare sulle rotaie». Lei pensa di manovrarlo questo treno? «Penso di sì, cerco di dare la mia personalit­à ai social. Su Instagram veicolo la mia musica, la mia vita più privata la tengo per me. Non mi va che 300 mila persone sappiano che faccia hanno i miei e la mia fidanzata. Anche se poi ci sono persone che trovano il modo di scavalcare il recinto della privacy comunque. Tipo quelli che, se sono in tour e parlo con qualche ragazza, mi fanno i video di nascosto e li mandano a Eleonora, scrivendol­e: guarda cosa fa! È la cattiveria del paparazzo improvvisa­to». Un brano del suo ultimo album si chiama Spunte blu: la angoscia WhatsApp? «Le spunte blu, il visualizza­to e quel controllo maniacale fanno parte di questo nuovo mondo. È er gabbio di tutti noi. Anche se togli le spunte blu, l’online ti rimane. È un gioco e devi giocare a quelle regole».

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E ORA MI SIEDO In basso, la cover di Notti brave “After”, dove Carl Brave è seduto sul buco del Pantheon di Roma.
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