Vanity Fair (Italy)

IO CANTO DA SOLA

- di FERDINANDO COTUGNO foto PAOLO SANTAMBROG­IO

Paola Iezzi ha pubblicato una nuova canzone e forse è la più importante della sua carriera, anche più di quelle cantate con la sorella Chiara. Le sorelle Iezzi apparvero dal nulla o quasi, tra le Nuove proposte di un Sanremo fine anni ’90, cantarono Amici come prima e vinsero, davanti ad Alex Baroni e Niccolò Fabi. Poi avrebbero anche conquistat­o le classifich­e di mezzo mondo con Vamos a bailar. Altra musica, altra epoca. La nuova canzone non avrà lo stesso successo, ma dice molte cose vere. Un tessuto sonoro da elettronic­a francese anni ’90, sul quale Paola, che ha 44 anni e ha chiuso il duo con sua sorella da cinque, ha scritto e riscritto un testo per anni, prima di pubblicare il pezzo a ottobre. Si intitola Ridi ed è, come si dice, una lunga storia. Come tutte le lunghe storie va presa un po’ alla lontana. Ci vediamo in un bar di Milano, zona Arco della Pace, una Coca Zero a testa e tutto il tempo che serve. Uscirà anche un album? «Mi gestisco passo dopo passo, a seconda delle forze che ho. L’album è un concetto affascinan­te, ma facendo così, una canzone alla volta, mi viene meno ansia». Va in ansia quando esce un pezzo? «La scrittura è come andare dall’analista, trovare ciò che ti ha ferito, risvegliar­e le cose. Io non sono prolifica, non sono una mestierant­e con un milione di brani in un cassetto». Vuol dire però che quando ne arriva uno è importante. «Per questo quando poi esce soffro di più. La mia parte preferita è la realizzazi­one, lo studio, le foto. Poi il pezzo va fuori e finisce il bello, dopo l’immaginazi­one c’è la realtà, tutto si ridimensio­na». Partiamo dalle cose che non mettono ansia: il video girato a Los Angeles. «Ridi mi ha fatto sentire persa, senza riferiment­i. Mi serviva un posto come Los Angeles, che incarnasse questa sensazione e la curasse». Lo ha fatto, l’ha curata? «C’era l’oceano, è stato taumaturgi­co, il mare mi fa sentire a casa. Quindi sì, mi ha curata, poi il senso della canzone è accettare che le cose succedono a prescinder­e, ti fai i piani, con la squadra e il compasso, ma alla fine le cose arrivano, perché la vita è fatta così, il dolore è fatto per essere attraversa­to e fatto fiorire». Lei ne è uscita fiorita? «Sì, ma con delle cose in meno. Abbiamo tutti paura di star male, nessuno è Superman, sarebbe bello avere i superpoter­i...». Invece lei cosa ha avuto per affrontarl­o? «Il coraggio e gli amici. Se li sai scegliere, metà del lavoro è fatta». Lei ne ha nella musica? «Max Pezzali. È il mio amico di questo mondo, la prima tournée con gli 883 fu nel 1995, sono più di vent’anni. L’amicizia è fatta di tempo, quella tra uomo e donna è rara, l’esistenza di Max mi prova che esiste. Sento che ha a cuore la mia felicità, che mi vuole bene». «Rinasci, è tempo», dice in Ridi, verso la fine. A chi si rivolge? «A me. La canzone è nata nel 2013, a Cesenatico, non riuscivo a completarl­a, ogni volta che la toccavo mi faceva male. Passano gli anni, arriva un altro momento critico, questa estate, in Sardegna. Sono andata in ritiro...». Da sola? «Completame­nte, mi facevano compagnia un cameriere e la caposala nel ristorante dell’hotel la sera, la radio passava canzoni

Era la mora nel duo femminile più amato degli anni ’90, Paola & Chiara. Dopo la fine, dolorosa, del suo rapporto musicale con la sorella («Ricorderò l’ultimo concerto per tutta la vita»), Paola Iezzi ha scritto, riscritto e finalmente pubblicato

Ridi, il nuovo singolo dove riflette sulle verità della vita: qui ci racconta l’importanza di lasciare andare il passato e di abbracciar­e il futuro con entusiasmo

italiane anni ’70. Per andare al mare ascoltavo musica in riproduzio­ne casuale, Cat Stevens, Everything but the Girl, e poi arriva Ridi. Ho pensato: “Cazzo, ma che bella”, mi sono seduta e ho scritto la parte finale, che ho registrato con la voce robotica, come la scena dell’ologramma gigante e Ryan Gosling nel remake di Blade Runner». A proposito di cinema, il video di Vamos a bailar fu diretto da Guadagnino. «Non so quanto gli faccia piacere ricordarlo. Noi giocavamo con l’immagine, ci fu consigliat­o questo giovane regista con un percorso molto personale. Fu un’epifania, oggi è normale accostare pop e un linguaggio più alto, all’epoca erano mondi che non si incontrava­no, fu un atto di coraggio da parte sua e nostra, poi era il 2000, grandi speranze, grandi aspettativ­e». Com’era sul set? «Sempre sorridente, ogni tanto si metteva le mani nei capelli e diceva: “Oh no”. Sembrava un bambino in un negozio di giocattoli, si sorprendev­a di tutto, diceva che gli piacevamo tantissimo. Un artista puro, senza filtro». Se potesse dire una cosa a quella Paola, darle un consiglio? «Trovati un manager. Siamo arrivate in Sony a vent’anni, quando abitui la gente che hai intorno al fatto che sei piccola è difficile poi dimostrarl­e che sei un adulto, sarai sempre quella che, se si impunta, le si può dire: stai zitta. Questo ci ha perseguita­to. Ci dicono di tornare insieme, ma io mi stupisco di quanto siamo durate. Due donne, due sorelle, sole, senza un manager». Immagino che le domande su Chiara siano una tassa. «È normale. Mi identifico spesso con gli Oasis, ciò che è successo a loro è successo anche a noi, con le aggravanti che sono maschi irruenti di Manchester e bevono birra. Ma so cosa hanno passato e questo me li fa amare ancora di più». Vi sentite, lei e Chiara? «Non spesso, ma è un esercizio di rispetto reciproco. Abbiamo passato vent’anni in simbiosi, con un cervello solo, sulla musica non discutevam­o mai». Per questo l’allontanam­ento è stato così duro? «Non ci si separa mai in pace. Si può arrivare a un’accettazio­ne, dopo un processo di comprensio­ne dello stato emotivo dell’altro. Ma l’impatto è stato il Titanic con l’iceberg, un fallimento che è anche il fallimento di una parte di te. E poi le implicazio­ni familiari, la mamma, il papà, la nonna». È stato difficile per loro? «Molto. Mi sono trovata emotivamen­te sola, non potevo chiamare mia madre e vomitarle addosso tutto, lei soffriva quanto noi, per loro era un fregio che avessimo successo come sorelle, è stato un dolore enorme vederci separate». Anche perché non poteva dar loro quello che volevano. «C’è stata la fase in cui ce lo chiedevano, di rimetterci insieme, ma Chiara e io eravamo ormai avanti nel processo, e doversi anche difendere da questa richiesta era molto faticoso. Oggi ne parlo serenament­e ma è una conquista, sono felice di sapere che Chiara sta bene, che fa cose diverse, ma quello che vuole fare». È stato questo l’iceberg? Che volevate cose diverse? «L’iceberg è stato diventare persone diverse, con desideri diversi, uno spirito diverso nell’affrontare le cose. Due binari che non si sarebbero più incontrati». Se lo ricorda il momento in cui ve lo siete detto? «Una persona mi chiamò per dire basta, non era lei, ma lo fece per conto suo. Per me è stato un dolore fortissimo. Avevamo capito che Giungla sarebbe stato l’ultimo disco, ma io volevo portare a fine corsa il progetto. Era un bel disco, ci era costato soldi, tempo, energie. Mi ha dato rabbia dover chiudere a poche settimane dall’uscita. Poi ho capito che Chiara non avrebbe sopportato un’ora di più». Il dolore però è ancora lì. «Ci sarà sempre una parte di me che ripenserà alla telefonata, era una domenica, c’era il sole». È il momento in cui era a Cesenatico e ha scritto Ridi? «Ero a Milano. Cesenatico è stata poco dopo, l’ultima volta che abbiamo cantato insieme, la festa di Radio Bruno. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo concerto, era l’ultimo impegno firmato, avevamo già cancellato tutto il resto. Quel giorno ho scritto Ridi». Come fu quel concerto? «Tosto. Lo ricorderò per tutta la vita. Nella mia testa non lo accettavo, uno ci mette sempre un po’». Nelle coppie c’è sempre chi va via per primo. «C’è sempre chi ha elaborato prima di te e tu ti trovi a dire: “Ma come?”. Ci ho messo più tempo, forse perché sono la più piccola. Ma ho lasciato andare quella rabbia, mi sono tenuta la bellezza di ciò che è stato. Io e Chiara oggi siamo in pace. Stare legati al passato è una delle cose più ingiuste che uno possa fare a se stesso. È meglio abbracciar­e il futuro con tutto l’entusiasmo e l’energia possibili».

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