Un ALTRO GOLe POSSIBILE
Un tempo (lontano) in porta ci andava un uomo. Oggi il calcio femminile è una realtà di successo, anche in Italia: boom di tesserate (quasi 24 mila), squadre organizzate come club, tifosi educati ma follower accaniti, e una Nazionale che i maschietti se la sognano... Siamo andati a vedere di persona come ci si smarca dai pregiudizi
Lucia ha appena arpionato con baldanza gli ottanta, lavora col figlio al furgone dei panini. Dal suo scranno profumato di salsiccia e peperoni guarda la partita, traducendo ogni dribbling in una picconata a decenni di discriminazione sessista. La fuga sulla fascia di un terzino con la coda di cavallo e il mascara le deve sembrare un’accelerata verso quell’emancipazione che a lei è sfuggita, come un pallone stoppato male e finito lontano. «È bello vedere queste ragazze felici. Quand’ero giovane, al mare in Calabria, andavo a fare il bagno con la sottoveste: stare in costume non si poteva. Se andavi a ballare ti davano della puttana, me lo ricordo bene. Scusi, si può dire puttana?». Di cosa parliamo quando parliamo di calcio (femminile). Per scoprirlo siamo andati allo stadio Ossola di Varese, in campo Milan e Juventus, l’eccellenza del campionato. C’è la diretta Sky, con tre giornaliste a coprire l’evento. Confortanti i dati di ascolto: alla fine il match registrerà in tv 120 mila spettatori medi. Siamo in 1.500 – ed è record – seduti sui gradoni di una tribuna che ha visto tempi migliori. Atmosfera rilassata, pubblico mischiato, tante donne, di tutte le età, mamme, nonne, sorelle, amiche; molti i padri con le figlie, considerevole il numero di quelli che sono venuti alla partita senza avere legami di parentela, spinti dalla passione, mossi dalla voglia di capire se esiste un altro modo di vivere il calcio. Esiste, sì. Quando le squadre entrano in campo c’è un signore sulla cinquantina col microfono in mano che reclama l’attenzione del pubblico. «Allora: due battiti di tamburo e un battito di mani. Sempre più veloce fino all’applauso. Facciamolo tutti insieme, che viene meglio: seguite il tamburo». Massimo e Alessandra sono i genitori di Lisa Boattin, terzino della Juventus. Sono di San Stino di Livenza, dove Venezia si fa terraferma. Massimo indica con orgoglio la maglia che indossa: quella della figlia, con il numero 13. Racconta che Lisa al paese giocava a calcio con i maschi. La chiamavano la «Piccola Nedved», per la chioma bionda e il furore agonistico. Corrado invece ha accompagnato qui la figlia tredicenne, Anita, che gioca con le Azalee di Gallarate. Lei è divisa tra Higuain e Sfera Ebbasta, si sa che a quell’età i filosofi di riferimento cambiano in fretta. Lui cerca conferme su Gattuso: «Ma secondo te è l’allenatore giusto per il Milan?». Nel dubbio: padri che assecondano le figlie, senza pressioni, rimanendo un passo indietro, a godersi lo stesso spettacolo. Nel settore del Milan srotolano uno striscione. «Scatenate l’inferno/Forza Diavole in eterno». Si vira verso l’epica, ma in fondo i cori sono ingenui, puliti, sanno di un tempo lontano. «E facci un gol/e facci un gol». «Sara Gama olé/ Sara Gama olé». Testi che potrebbero chiedere cittadinanza ai libretti dei canti delle suore. Claudio è dirigente del Ceresium Bisustum, squadra femminile di Porto Ceresio, categoria
dilettanti. Per fare un campionato spiega che – fra trasferte, materiale tecnico e spese di manutenzione – servono 8-9 mila euro. Il movimento è in crescita. Le società più organizzate – Juventus, Milan, Fiorentina, Roma, Sassuolo e Hellas Verona – hanno tracciato il solco affiliandosi ai rispettivi club maschili. In estate il report del Centro Studi della Figc ha attestato 23.903 calciatrici tesserate (vent’anni fa erano 8 mila), comprese le circa 10 mila che svolgono attività a livello scolastico e nei settori giovanili, spesso in squadre miste. Ma siamo comunque indietro: in Europa occupiamo il 13° posto per numero di tesserate. Comanda la Germania (209.713), seguono Svezia (179.050) e Olanda (153.001). Negli Stati Uniti la metà dei liceali che gioca a calcio è composta da ragazze. In Norvegia uomini e donne che giocano in Nazionale hanno lo stesso compenso. Eppure la realtà italiana racconta di un numero sempre maggiore di giovani donne che giocano, si smarcano dai pregiudizi, danno calci a pensieri retrogradi di chi non le ritiene adeguate. E vincono. La Nazionale azzurra allenata da Milena Bertolini ha conquistato la storica qualificazione al Mondiale di Francia 2019: erano vent’anni che non accadeva. La Figc – che alle donne riserva un budget di 4 milioni e mezzo e organizza i campionati di Ae B – in estate ha siglato un accordo pluriennale con Sky. Obiettivo: sostenere il movimento, garantirne la visibilità. Ogni domenica (ore 12.30, canale 202, Sky Sport Serie A) viene trasmessa la partita più importante, a seguire il lunedì gli approfondimenti con interviste, storie e reportage. G iuseppe è di Torino, 48 anni, operaio. È un tifoso migratore. Dalla Juve, quella maschile, ha spostato cuori e cori fino a qui, calcio femminile. Meglio la Bonansea di Cristiano Ronaldo. Coro: «È scesa in campo/la nostra dea/Ma quanto è bello/quando fa gol la Bonansea». Giuseppe dice una cosa preziosa, che segna una distanza tra questo e l’altro calcio. «Qui si fa il tifo per e non si tifa mai contro». Barbara è una ex calciatrice. «Ai miei tempi – ti parlo di trent’anni fa – si giocava in campi di patate e i maschi venivano alle partite solo per insultarci». Lunga e tortuosa è stata la crescita del movimento. In Italia le donne – la gonna fin sotto il ginocchio, una retina a trattenere i capelli – cominciano a giocare a calcio negli anni Trenta, ma si liquida la pratica come «spettacolo ricreativo». In quegli anni a Milano nasce il Gruppo Femminile Calcistico. Il ruolo del portiere è abolito, si temono traumi al seno. In porta ci va un maschio. Il primo campionato nazionale – non è un caso – è del fatidico ’68. Da allora: discese ardite e risalite, sparizioni e sberleffi, piccole rivoluzioni, sogni interrotti, più pali che gol, il professionismo come traguardo e piedistallo per una nuova era. Intanto, in campo. Milan batte Juventus 3-0. Spettacolo di qualità, ci si legna con antica lealtà. Baci, bacetti e cuoricini al pubblico quando si festeggia un gol. Esultanze che poi verranno postate e twittate, immagini che diventeranno seguitissime stories su Instagram. La calciatrice più social d’Italia, Regina Baresi, gioca in Serie B, con l’Inter: su Instagram ha oltre 67 mila followers. A Sara Gama – capitana della Juventus e dell’Italia – la Mattel ha dedicato una Barbie nella collezione «Shero». Papà congolese, mamma triestina, Sara è laureata in Lingue e Letterature straniere, parla quattro lingue e col pallone ci sa fare: le colleghe l’hanno inserita – unica italiana – nella Top 50 delle migliori calciatrici del mondo. Sul web trovate video di Manuela Giugliano mentre con un tocco fa passare il pallone sopra la testa dell’avversaria, si chiama «sombrero», devi avere piedi vellutati per provarci. Sgomitando, le ragazze stanno cercando la loro identità. È dura. Combattono anche il fuoco amico. Felice Belloli, l’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, tre anni fa fu beccato mentre diceva: «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche». La ct della nazionale, Bertolini, parte sempre da un preciso presupposto. «Se un bambino di terza elementare sogna di giocare nella Juventus o nella Fiorentina, perché non può farlo la sua compagna di banco?». Liberi sogni e libero pallone in libero campo di calcio. Valentina è una donna di trent’anni che insegna educazione fisica alle medie. «Oggi sono molte le ragazzine che si avvicinano al calcio. Le cose stanno cambiando. Una volta si diceva: se tua figlia gioca a calcio si rovina il fisico, guarda che diventa lesbica. Per fortuna certi pregiudizi dopo un po’ si smontano da soli. Le vedi, no, le ragazze che stanno giocando?». Stanno rincorrendo un pallone. Siamo a novembre e il pomeriggio accoglie ancora un’illusione di sole. Sembrano felici. E tanto basta.