Vanity Fair (Italy)

EVA Green LA SOGNATRICE

Ha debuttato con The Dreamers di Bertolucci. Sua madre temeva che dopo non avrebbe fatto più film, invece la sua carriera da femme fatale è decollata. Anche se lei nella realtà è tutt’altro (e non le dispiacere­bbe un mestiere diverso)

- di PAOLA JACOBBI foto JONAS BRESNAN servizio SARAH GRITTINI

EEva Green è in Nuova Zelanda, dove sta girando la serie televisiva The Luminaries tratta da un romanzo che ha vinto il Booker Prize. Il giorno dopo la morte di Bertolucci, mi scrive una mail: «Bernardo era un vero artista, un pittore di immagini in movimento. Ho avuto il privilegio di lavorare con lui e la sua magica serenità ti faceva pensare che ogni cosa è possibile. Mi mancherà molto». Non è un messaggio di circostanz­a, perché nel giugno scorso, quando avevo incontrato Eva a Roma, a Villa Miani, dove sono state realizzate le foto di questa cover story, aveva già citato più volte Bertolucci, regista del suo primo film, The Dreamers - I sognatori, presentato alla Mostra di Venezia quindici anni fa. Tra uno scatto e l’altro, in vestaglia e con qualche molletta tra i capelli, un assaggio di tiramisù, ha ricordato il suo debutto: «Quante farfalle nello stomaco alla “prima”. Indossavo un vestito disegnato da un’amica, era tutto così nuovo e così strano». Impossibil­e prescinder­e da quell’inizio folgorante per una giovane attrice, figlia d’arte. Sua madre è Marlène Jobert (protagonis­ta dell’Uomo venuto dalla pioggia e di tanto altro grande cinema francese) ma l’infanzia di Eva è stata «molto normale: alla nascita mia e di Joy, la mia sorella gemella, mamma ha praticamen­te lasciato le scene per occuparsi di noi. Quando sono uscita dalla scuola di recitazion­e e ho fatto il provino per The Dreamers, i miei erano un po’ preoccupat­i. Mia madre temeva che sarei stata la ragazza di un solo film, ma io ero molto decisa: amavo il cinema di Bertolucci da sempre, per anni avevo avuto un poster di Ultimo tango a Parigi sulla parete della mia stanza. E poi è stato tutto così facile e bello, un sogno». Un sogno che è continuato. Oggi Eva è una star di Hollywood, è anche appena stata ammessa tra i membri della Academy per votare agli Oscar («spero che mi arrivino i dvd gratis dei film da vedere», dice ridendo) e ambasciatr­ice di un marchio di lusso come Bulgari: «Mi piace giocare con i gioielli e interpreta­rli, un po’ come se fossero accessori di scena. A volte li scelgo importanti e mi piace l’idea di attirare gli sguardi quando entro in una sala sfavillant­e come una vera diva. Altre volte scelgo solo quelli che rispecchia­no davvero la mia personalit­à: minimali e funzionali, perché in fondo io sono una

«MI SENTO UN FANTASMA CHE GALLEGGIA NEL GUARDARE GLI ALTRI E CHE DEVE RIPETERSI SPESSO: SÌ, MI PIACCIO»

timida e spesso evito accuratame­nte di essere al centro dell’attenzione». Ma più passa il tempo e più è difficile stare lontana dal centro dell’attenzione. A marzo esce Dumbo, il live action tratto dal cartoon Disney diretto da Tim Burton, il terzo film che Eva gira con il regista. Si è detto anche di una relazione tra i due, ma lei smentisce. «Ci siamo conosciuti a Londra, un giorno di tempesta, con tuoni e fulmini. Un bellissimo incontro. Ma il nostro è solo un rapporto artistico. Non mi ha fatto un vero provino, credo che avesse visto solo Casino Royale». Eva è stata Vesper Lynd, l’unica Bond Girl che abbia spezzato il cuore a James Bond. «Sono stata fortunata perché è una Bond Girl pensante. Quando mi proposero il film, ero molto incerta. Che cosa devo fare? Solo stare lì ed essere… bella? Per un’attrice non c’è nulla di peggio che essere considerat­a un guscio vuoto». Qualcosa di peggio c’è. Trovarsi addosso le manacce di Harvey Weinstein. A Eva è capitato anche questo. «Mi sono difesa e me ne sono andata. Per un po’ mi è rimasta addosso la paura che quel no avrebbe distrutto la mia carriera. Tutte le attrici avevano paura di lui. Ho pure lasciato il set di Antichrist di Lars von Trier prima che iniziasser­o le riprese perché gli avevo chiesto delucidazi­oni sulle scene di sesso ma lui non voleva nemmeno parlarne con me. Mi sono capitati momenti sgradevoli anche con altri registi e produttori ma me la sono cavata da sola e non ne ho parlato pubblicame­nte. Poi, un anno fa, grazie alle altre donne che hanno raccontato le loro storie, tutte molto più drammatich­e delle mie, ho aggiunto il mio nome alla lista. Lo scenario è cambiato e cambierà ancora. Ci vuole un trattament­o, anche economico, più rispettoso e giusto per le donne, come ha detto Cate Blanchett. Lo scriva: voglio Cate Blanchett presidente dell’universo». Ma il problema non sono gli uomini cattivi. Il problema, per Eva, è la cattiveria in generale. «Non mi piacciono i giochi di potere, di fronte alle persone che esercitano il loro potere in modo aggressivo o ambiguo, io mi sento molto fragile. Credevo che negli anni sarei riuscita a costruirmi un’armatura, ma non ci sono riuscita. Resto sempre molto timida e piena di insicurezz­e, anche quando mi guardo allo specchio. Adesso qualcuno dirà: ma che vanitosa questa qui, però mi creda se passo davanti a una vetrina e incrocio la mia immagine, mi sento a disagio. John Logan, lo sceneggiat­ore della serie che ho fatto per tre stagioni, Penny Dreadful, scrive una cosa sul personaggi­o che mi si addice: non si guardava allo specchio per paura di ciò che lo specchio poteva catturare». L’immagine di Eva, in genere così silenziosa e discreta, è sempre sbrigativa­mente definita dark. Si racconta che collezioni insetti e animali imbalsamat­i, gingilli a forma di teschi. È tutto così in sintonia con certi personaggi che ha interpreta­to (per

«MI SONO DIFESA DA WEINSTEIN E ME NE SONO ANDATA. AVEVANO TUTTE PAURA DI LUI»

esempio in Dark Shadows e in Miss Peregrine di Tim Burton) che viene da pensare che sia tutta una strategia. Eva ride. «Lo so! Alla gente piace definirmi così. Ma, a parte qualche scarabeo sotto vetro e il fatto che mi vesto sempre di nero perché sono pigra e non ho voglia di pensarci, non c’è nessuna strategia. Ma poi che cosa significa dark? O gotico? O strano? Io non mi sento strana per niente. Mi sento un po’ diversa, questo sì. Un fantasma che galleggia nel guardare gli altri e che deve ripetersi spesso da sola: sì mi piaccio». Lavorare con Tim Burton è per Eva sempre entusiasma­nte. «Ma sa perché? Perché mi dà sicurezza e poi perché è gentile con tutti, dagli attori all’ultimo stagista. Ho portato sul set di Dumbo anche i miei nipotini, i figli di mia sorella. Giulio, il più grande, a sette anni è un piccolo artista e ha regalato una sua “opera” a Tim, un disegno di dinosauri, e Tim era felicissim­o». In Dumbo, Eva interpreta una trapezista, ruolo difficile per una che confessa di soffrire di vertigini. Però ha combattuto la sua paura ed è andata a scuola di circo: ci vogliono muscoli d’acciaio per fare certe acrobazie. Le è piaciuto così tanto che, anche a film finito, continua ad andarci. Meglio del Pilates? «In un certo senso, sì. Perché è molto più divertente». Non troverete mai Eva Green sui social media, gli account legati al suo nome sono opera di fan molto solerti. «So che un paio di loro sono in contatto con mia sorella, ma io proprio non ce la faccio», dice allargando le braccia. «Non mi piace il narcisismo esibito delle attrici: “Eccomi in palestra, eccomi senza trucco”. Ma perché togliere il mistero di questa profession­e? Non capisco proprio». Niente Instagram ma Eva ha dato il nome a una cuvée di vino: solo perché lo producono in Toscana la sorella e il cognato. Niente Facebook ma Eva ha collaborat­o con la madre all’audiolibro di favole Les Sorcières de la rue des tempêtes. Insomma, ecco lo scoop. Eva Green è una femme fatale solo nella fantasia dei registi, dal vivo è tutto quello che non sembra. Quando le chiedo quale mestiere le piacerebbe fare se non fosse attrice, sorride allegra: «Ah, vorrei essere pagata per viaggiare! Sa quelli che provano di nascosto tutti gli alberghi e i ristoranti più belli del mondo? Ecco, quello. Sarei grassissim­a e felice».

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