Vanity Fair (Italy)

Kim Rossi Stuart

Un libro di racconti per esplorare sogni, visioni e ossessioni: «Dentro ci sono anche io, ma non parlate di autobiogra­fia: Le guarigioni è tutta un’altra cosa, una storia differente»

- di MALCOM PAGANI foto FABIO LOVINO

Padri e figli, amori e ossessioni, presente e futuro, preti, fedi, croci, anime ferite e uomini randagi che Kim Rossi Stuart, per tenere al guinzaglio, ha fatto correre sulle pagine del suo primo, sorprenden­te libro edito per La nave di Teseo. Si intitola Le guarigioni e tra le righe, a tratti ironiche, non di rado feroci, pulsano paradosso, disincanto, talento e antiche passioni: «Ho scritto questi cinque racconti esattament­e come facevo quando avevo 12 anni e mi mettevo seduto alla scrivania appartenut­a a mio nonno. All’epoca, su quel tavolo imponente, buttavo giù poesie e storielle per dare aria alla mia fantasia». Era una fantasia fervida? «Sono stato uno di quegli adolescent­i che nel diario metteva qualsiasi pensiero gli passasse per la testa. Ma non lo facevo per liberarmi da ansie e problemi ieri e tantomeno lo faccio oggi. Il mio scrivere è più vicino al ricostruir­e che allo sfogarsi». Perché un libro di racconti? «Quando uscì Tommaso, il mio ultimo film, mi chiesero di pubblicare il soggetto. Lo avevo scritto in forma assolutame­nte letteraria, distante dai canoni restrittiv­i che impone il cinema e la sua mancanza di asetticità ha spinto qualche editore a chiedermi di riprovarci». Si è fatto convincere in fretta? «Prima ho detto di no, poi di sì, alla fine ho ceduto e negli ultimi due anni mi sono divertito – e molto – a giocare con la possibilit­à totalmente nuova di non avere i tipici paletti della scrittura cinematogr­afica. Un tuffo nella libertà». Quale libertà? «Quella di lasciarsi andare senza limiti a monologhi interiori che in un film sarebbero insostenib­ili e di inseguire un’estetica veramente mia. Mi sono trovato io, da solo con me stesso, con l’obiettivo di raggiunger­e veramente quello che volevo». Normalment­e, da attore o da regista non le capita? «Idealmente, provi a raggiunger­e sempre lo stesso risultato, un risultato che somigli alla tua idea di perfezione. Ma esistono troppe mediazioni e il prodotto finale non può mai essere quello che hai sognato in origine». Scrivere un libro. Bilanci. «È stata dura chiuderlo. Mi rimandavan­o le bozze a intervalli regolari e con la stessa regolarità, a ogni rilettura, trovavo mille imperfezio­ni ed errori e cresceva un’insoddisfa­zione latente. A un certo punto dalla casa editrice mi hanno detto “adesso il tempo è veramente finito, ora andiamo in stampa sul serio” e mi hanno strappato dall’incantesim­o. Avrei continuato a correggere all’infinito, sarei diventato io stesso un racconto borgesiano». Nell’imperfezio­ne non si nasconde una forma di perfezione? «La farei più semplice. Se ci sono errori imperdonab­ili, inaccettab­ili e improponib­ili, me li tengo. Sono molto lontano dalla perfezione, diciamo che il libro con gli errori mi rappresent­erà perfettame­nte». Uno dei suoi personaggi sostiene che per vivere senza illusioni ci vogliano «le palle». «Ma anche per vivere con le illusioni, credo. Nel libro ho provato ad alternare dramma e umorismo, cupezza e tenerezza perché per me, da sempre, tutti questi elementi stanno insieme. E farli coabitare è una virtù». Il titolo, Le guarigioni, cosa ci dice del libro? «Che tutti i personaggi vogliono guarire da qualcosa o desiderano guarire qualcun altro, se ci si immagina in relazione agli esseri umani, credo sia una condizione dalla quale fuggire sia impossibil­e». Lei da che cosa ha provato a fuggire? «Forse da una certa solitudine, ma è una fase di ieri se non dell’altroieri. Da ragazzino mi sono sentito isolato, oggi neanche un po’». Come mai? Era timido? «Lo sono stato. Avevo fantasia, stavo molto per conto mio, mi annoiavo e annoiarsi, mi dia retta, ha la sua importanza. La fantasia comunque non aiuta a superare la timidezza. La timidezza ha molti limiti». Il più grave? «Rischia di farti perdere il contatto con la realtà e – cosa più grave – l’occasione di condivider­e qualcosa con gli altri». Quando ha deciso di andare verso gli altri? «Non so se l’ho deciso, magari si è trattato soltanto di un processo che fino a una certa età, sempliceme­nte, mi era precluso dalla mancanza dei requisiti minimi. Ma gli altri mi piacciono, li cerco. Sinceramen­te da tempo mi sento molto aperto e interessat­o a condivider­e il più possibile con gli altri. Sono proprio felice di stare con le persone e, anzi, ho difficoltà a trovare il tempo per stare assieme a tutte loro. Ce ne sono così tante belle e tremendame­nte interessan­ti, istruttive, sorprenden­ti». È un libro in cui le sofferenze dei protagonis­ti si annusano, si sentono, quasi si toccano. «Perché le sofferenze umane dobbiamo sorbircele tutte fino in fondo: non c’è modo di scappare. Non siamo in un western in cui qualcuno con un colpo di pistola mette fine al dolore. Però il mio è anche un libro in cui la liberazion­e presto o tardi arriva. Magari nelle ultime tre righe, ma arriva». Nel primo racconto, un racconto acre, si vedono rapporti umani difficili. «Si vede il sangue e si vede la merda, perché sono elementi reali. Nel primo racconto ballano un padre e un figlio alle prese con una complicata

«Cosa mi aspetto? Di continuare a crescere e di avere la forza di provare a diventare ancora l’uomo che sogno di essere ogni giorno»

«Da ragazzo sono stato solo, a 49 anni ho molta voglia di stare con gli altri: incontro spesso persone straordina­rie»

convivenza ritmata da un’educazione ruvida e faticosa». Spietata? «Severa, ma anche ambivalent­e: positiva e negativa». Lei ha vissuto la prima adolescenz­a lontano dalla città. Suo padre Giacomo, già attore, si era ritirato in campagna. «Mio padre preferiva gli animali agli esseri umani e a volte anche a me è accaduto di pensare che la vita animale, così priva di sovrastrut­ture ed elucubrazi­oni inutili, fosse migliore. Mi è capitato, ma sinceramen­te non rivendico quei pensieri con orgoglio. Li considero momenti di debolezza. L’intelletto è meglio dell’istinto o almeno, per quanto l’istinto privo di intelletto in dotazione agli animali sia meno dannoso e pericoloso dell’essere umano, oggi non rinuncerei più al privilegio straordina­rio di poter ragionare. Certo, la mente va governata ed è noto che farlo sia impresa complicata». Quanti tratti autobiogra­fici pulsano nel libro? «Non parlerei di autobiogra­fia né di tendenza all’autobiogra­fismo perché questo libro ha un altro percorso. Dentro Le guarigioni c’è sicurament­e qualcosa di me, del mio passato e delle mie aspirazion­i più intime, ma quegli aspetti della mia vita sono filtrati attraverso la fantasia e finiscono per esserne stravolti». È stato faticoso crescere in campagna? «Facevo molti chilometri per raggiunger­e Roma e ogni tanto, se perdevo la corriera, fin dai miei 12 anni, rimediavo con l’autostop. Quella della campagna era una natura selvaggia e con mio padre, un uomo che ho amato molto, di un amore complesso e a volte tormentato, un vero Don Chisciotte, ho avuto un rapporto bello e più adulto di quanto l’età non facesse presumere». In che senso più adulto? «Nel senso che sono cresciuto in fretta e che era un rapporto imperniato sulla verità». Che relazione intrattien­e con la verità? «È una mia ossessione, da sempre preferisco sapere come stanno le cose anche perché sono convinto che dietro ogni presa di coscienza ci sia una catarsi, un passo in avanti, un clic che ci fa procedere verso la luce». È successo anche a lei? «Mi pare che la vita sia un insieme di clic e che esista una tensione al migliorame­nto. Si cambia? Per forza. I cambiament­i però trascinano con loro un peccato originale. Una forma di inganno: siamo sempre persuasi che la fase che stiamo vivendo sia in qualche misura più vera e viva di quelle che l’hanno preceduta, ma non è detto che sia vero e che quella sensazione sia autentica». Le guarigioni è anche un libro sulle partenze improvvise, sulle fughe da fermo e sugli strappi. «Sono partito anche io, molto prima di quanto i manuali sul tema avrebbero consigliat­o. Andai in America a 15 anni, senza sapere l’inglese e con mille dollari in tasca. Rimasi tre mesi, prima ospite di un pittore greco conosciuto grazie a mia zia e poi in un seminterra­to nell’East Village popolato da topi enormi. Prima di tornare in Italia feci in tempo a vedere un paio di lezioni all’Actors Studio e a lavorare in un maneggio in Pennsylvan­ia. I cavalli li conosco e da ragazzo li ho montati spesso. Sono caduto tante volte, ma ho imparato che ci si rialza e poi ci si rimette in piedi». Ha preso molti pugni? «Ne ho incassato qualcuno per finta sul set e ne ho preso qualcuno vero. Anni fa un mio amico con cui giocavo a calcio mi diede un destro fortissimo, ma così forte che pensai che nello spogliatoi­o gli fosse scappato un movimento involontar­io». E cosa fece? «Glielo restituii per finta, quasi in slow motion. Pensavo scherzasse, ma lui non scherzava affatto. Covava un rancore sordo, un rancore di cui ero del tutto inconsapev­ole. Quando lo capii, lo invitai a colpire ancora. E a quel punto, visto che mi voleva far davvero male, mi difesi. Non sempre possiamo spiegare razionalme­nte le reazioni improvvise e i percorsi degli altri, ma l’ignoto non mi spaventava ieri e non mi fa paura neanche oggi». Le guarigioni è anche un libro sul bene e sul male? «Nell’ultimo racconto ho preso di petto l’argomento perché mi interessa. Una delle maggiori difficoltà dell’esistenza è il non saper collocare adeguatame­nte il male. Il male è parte integrante della nostra vita. Cerchiamo di amputarlo da noi stessi, ma è un tentativo assolutame­nte disumano». Che cos’è per lei il ricordo? «Qualcosa di nitido, di percepibil­e, di vivo. Un dettaglio, un volto, un clima, un’atmosfera». Ricordi del suo esordio sul set? «Il feltro del vagone in cui mi addormenta­i in una pausa delle riprese di un film di Bolognini. Avevo 5 anni, di recitare non volevo saperne e Mauro mi blandiva con dei cioccolati­ni. Lì accadde una cosa strana, sulla quale ho riflettuto poi». Quale? «C’era un bravo fotografo, Mimmo Cattarinic­h, che un giorno mi trovai alla spalle. Credevo mi volesse fotografar­e e diventai una statua di sale. Mi bloccai, letteralme­nte, per minuti che mi parvero lunghissim­i. Poi mi girai e lui non c’era più, si era come dissolto. Ho sempre pensato che quella cosa avesse un che di simbolico». Di che simbolo parliamo? «Di quanto sia complicato essere sotto i riflettori, un ambito che per me ha sempre rappresent­ato un’impresa. Fosse per me, parlerei poco e mi metterei in mostra ancor meno». E in che cos’altro si impegnereb­be? «Nel continuare a crescere e nell’avere la forza di provare a essere la persona che sogno di poter ancora diventare».

«Ho raccontato con ironia e dolore, senza dimenticar­e di mettere nei racconti sangue e merda, la vita è anche così»

 ??  ?? LE GUARIGIONI di Kim Rossi Stuart Edito da La Nave di Teseo, Collana Oceani (pagg. 208 , ¤ 16), è in libreria dal 24 gennaio.
LE GUARIGIONI di Kim Rossi Stuart Edito da La Nave di Teseo, Collana Oceani (pagg. 208 , ¤ 16), è in libreria dal 24 gennaio.

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