Non in mio nome
Mentre torna con un album pieno di «rabbia costruttiva», ENSI rivendica le radici del rap italiano e spiega perché non capisce i fan destroidi
Con i suoi 33 anni compiuti da poco, i sei dischi alle spalle (due con gli OneMic) e la reputazione riconosciuta da tutti, Ensi è ormai ufficialmente parte della vecchia scuola del rap italiano. In Clash, il suo ultimo album (esce il 1° febbraio), cita uno dei più forti difensori nella storia del basket, Dikembe Mutombo, e la frase con cui fermava gli avversari: «Non a casa mia». Ensi fa proprio questo, rivendica di essere il padrone, contro i ventenni della trap e dei talent. Lo fa anche omaggiando le passioni sonore più laterali (la dancehall giamaicana, rappresentata da Attila e Agent Sasco) e mettendo in mezzo il suo vissuto adulto: un figlio di tre anni, una complessa storia familiare, il padre in carcere. Clash è un disco molto arrabbiato. «Vero, altrimenti lo avrei chiamato “Il fantastico mondo colorato di Ensi”. Non mi sono tenuto le cose. Se levi la rabbia al rap, cosa rimane? Ma è una rabbia costruttiva». Cosa costruisce la rabbia di oggi? «Non sento la corsa al featuring ammiccante, alla hit dell’estate, alla musica per sedicenni, spero di aprire a una nuova ondata di rapper che facciano semplicemente rap, con le maiuscole». Non dovrebbe essere un’età dell’oro, questa? «Quello che succede è merito di quello che c’è stato. Se oggi un ragazzino può rappare di quanto sono fighe le sue scarpe o buona la sua erba è merito del lavoro fatto un decennio fa, quando non si vendeva, non c’era visibilità. Poi il tempo è un setaccio per valutare cosa vale. I più bravi, come Noyz Narcos, Luchè, Salmo, stanno facendo i dischi migliori e hanno davanti anni importanti». In un verso dice: «Odio i rapper fasci e i rapper nazi». «Le persone con una visione sociale e politica destroide che ascoltano rap mi lasciano basito, lo stesso effetto di Salvini che condivide De André. Di che stiamo parlando? Un ragazzo mi chiese un autografo su una tessera di Forza Nuova. Lo guardai dicendogli: sei folle? Ma io sono contento se non compri il mio disco». Oggi la musica parla sempre meno di politica. «Non sono un rapper politico, è un’accezione old school, io parlo di società. Ma una cosa che mi fa schifo è il fascismo in ogni sua formula. E questo verso l’ho scritto prima delle rivelazioni sul vincitore di X Factor e i suoi like a CasaPound, ma vale anche per lui».