Vanity Fair (Italy)

L’URLO E LA FURIA

A teatro è uno skinhead che odia i profughi. Ma lui, che un nonno migrante lo ha avuto, della violenza ha paura, anche se recitare la rabbia lo diverte. E gli ricorda quando «mi mancava papà»

- di MARINA CAPPA foto TIM CLARK

Il coltello alla gola del professore, l’odio contro i profughi, la violenza che cresce. Se ricordiamo com’era una decina d’anni fa, ragazzino secchione di Tutti pazzi per amore, o più di recente, gay problemati­co e infelice in In Treatment, non sembra possibile che questo Nicolas abbia il volto e la rabbia del 27enne Brenno Placido. Eppure, prima di ritrovarce­lo al cinema con la testa rasata di Marco Pantani (il film di Domenico Ciolfi dovrebbe uscire fra primavera e autunno), l’attore gira l’Italia in tournée – sarà al Teatro dell’Elfo di Milano dal 29 gennaio al 3 febbraio – con questo personaggi­o del dramma corale La classe. La classe descritta da Vincenzo Manna, con la regia di Giuseppe Marini, è formata da ragazzi borderline, in una cittadina dove si trova anche un campo profughi.

Come si trova in scena? È molto autocritic­o? «Comincio a esserlo meno. Però sono esigente, ricerco la perfezione, anche se non credo nella perfezione». Le sbavature a volte aiutano. «È vero, dall’errore impari tanto. Le prime esperienze in teatro le ho fatte con papà (Michele Placido, ndr): è stata una fatica ma molto utile. Sbagliare può essere umiliante, ma fa parte del lavoro». Umiliante perché in teatro quando si sbaglia lo si fa davanti a tutti? «Esporsi le prime volte è traumatico. Ma noi attori siamo un po’ masochisti: alla fine, è una vera goduria. Il mio lavoro adesso è l’unica cosa che mi dà un senso alla vita». E l’amore? «Sentimenta­lmente oggi non ho nulla, ma va bene così». Torniamo al lavoro, allora. «Il mio Nicolas è uno skinhead, e si oppone al campo profughi». Tema molto attuale. «L’immigrazio­ne è sempre attuale, l’uomo è un animale itinerante che migra verso il benessere. E ci riguarda tutti: se domani ci fosse un cataclisma, andremmo a cercare un posto migliore». Anche suo padre, nato in Puglia, si è poi spostato al Nord. «E il padre di mia nonna è emigrato in America a inizio ’900, credo lavorasse in una fabbrica. Poi, è tornato in Italia». Quanto contano le radici? «Ho vissuto tre anni in Gran Bretagna perché i miei si erano separati. Fu un trauma, mi mancava il mio Paese. Adesso, la mia casa vorrei fosse l’Italia». Quindi, ha studiato a Londra? «Tre anni, poi sono tornato e ho fatto la scuola inglese a Roma. Ho sempre vissuto un clima borghese. Fuori della scuola scene violente ne ho viste diverse». Le ha solo viste o ci si è trovato in mezzo? «Non sono uno che istiga alla violenza, anzi ho paura. Sono esperienze brutte che però ti aprono gli occhi. In parte ne sono anche attratto. Per il lavoro mi piace rappresent­are quelle situazioni: mi incuriosis­cono e insieme mi spaventano». Suo padre prima di diventare attore è stato anche poliziotto: le ha dato consigli? «Non gliene ho mai parlato. E poi lui adotta il metodo del silenzio: ascolta e non parla, mi lascia sfogare senza dire niente». La politica le interessa? «Quando posso vado a votare, ma non sono appassiona­to. Penso però che tutti dovremmo aiutare questi migranti che arrivano da situazioni tragiche. Ho visto un documentar­io su come vengono trattati nelle prigioni in Libia: terribile». Quindi che cosa farebbe con chi arriva dal mare? «Penso che i porti non li dovrebbero chiudere, non dovrebbero tenere la gente giorni e giorni sulle navi. Ma se l’Italia resta sola, si crea il clima anti-immigrato. Nella Classe il prof ci fa partecipar­e a un bando sull’olocausto siriano, e Nicolas si ribella: perché non fare una ricerca su chi in Italia è nato, ci vive, e non ha soldi? È la rabbia di tutti, che è giusta ma è anche ignoranza, se la prende con chi non ha davvero niente. Bisogna non cadere nell’odio». Che cosa prova a interpreta­re un personaggi­o così diverso da lei? «A fare il violento in scena mi diverto, è un gioco creativo. E lavorare sulla violenza ti fa scoprire tante cose, adesso comprendo perché quei ragazzi sono emarginati: non hanno nulla, hanno un padre che magari picchia, c’è la droga... ». A lei che cosa provoca la vera rabbia? «L’ingiustizi­a prima di tutto. E poi il dolore emotivo. Quando ero piccolo mi mancava tanto papà e allora piangevo, urlavo. Quello è il dolore. La disperazio­ne di vivere. Vivere mi piace, ma a volte mi fa paura. E mi chiedo: dove sto andando? Cosa sarà di me?». Profession­almente: adesso dove andrà? «Ho girato a ottobre un film inchiesta sugli ultimi quattro anni di Marco Pantani, divisi in tre fasi con tre attori. Io interpreto il Pantani accusato di doping a Madonna di Campiglio. Mi hanno rasato e trasformat­o, è stata la prima volta in cui a livello estetico sono cambiato completame­nte».

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