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Natalie Portman
«Il nostro presidente Trump ha avuto una storia con un’attrice porno e nessuno batte ciglio» Natalie Portman
Appartiene al cinema da quando aveva 13 anni. Ma solo ora che ne ha 37 si sente pronta a rivelarne i lati oscuri. A diventare paladina delle donne. E a raccontarsi senza fare sconti: né a Hollywood né alla stampa. E nemmeno al presidente Trump
All’inizio di Heat - La sfida, il thriller del 1995 diretto da Michael Mann, prima della primissima, convulsa rapina a mano armata, prima di quelle agghiaccianti maschere da hockey, prima del cupo duetto di Al Pacino e Robert De Niro, del loro inseguirsi come gatto e topo, prima della famosa cena, degli appostamenti, della spianata minacciosa di Los Angeles e dei nascondigli sulle sue colline, una ragazzina cerca un fermaglio in modo frenetico, ossessivo. Sul tavolo in cucina non c’è, ha controllato. E nemmeno sotto i cuscini del divano. Quello verde non lo vuole mettere, non le sta bene. «Mamma!», grida. «Dov’è il fermaglio? Mamma, mi ascolti? Papà sta per arrivare, e non mi trova pronta! Non posso fare tardi». Comincia a tremare, un panico soffocato le stringe la gola. Ha la voce rotta, sofferente. Le sopracciglia tese come lancette di orologio. Quel fermaglio le serve, subito. La scena, che ha per protagonista una Natalie Portman quattordicenne, è emblematica della sua precisione interpretativa. Manovra il punto di vista modificando il respiro, comunica il cambiamento di stato emotivo con lo sterno o le clavicole. Nei panni di Lauren, figlia di genitori divorziati, ansiosa di compiacere il padre fannullone, con un disperato desiderio che tutto sia perfetto, Portman e la sua soprannaturale capacità di non sprecare un dettaglio raccontano una storia intera in meno di un minuto. È il genere di interpretazione che abbiamo imparato ad aspettarci da lei. Quel suo modo di ritrarre personaggi che esprimono sentimenti metamorfici – a volte in modo violento, esplosivo – usando la forza controllata del suo corpo minuto (Il cigno nero, che nel 2011 le è valso l’Oscar alla miglior attrice protagonista). O di segnalare un mutamento dell’umore con un impercettibile scatto del mento e una sola lacrima (Closer). O di incarnare un coraggio baldanzoso (Annientamento), o una regale saggezza (Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma, L’altra donna del re). Lo sguardo penetrante di quegli occhi castano chiaro cattura all’istante, e fa il paio solo con il taglio pronunciato degli zigomi (V per vendetta, Jackie). Ogni volta che sorride rivela la rarissima imperfezione dei denti posteriori (La mia vita a Garden State), e sa anche cancellare qualsiasi sospetto di presunzione (la commedia Sua maestà, i suoi corti virali per il Saturday Night Live). Ultimamente ha cominciato a mostrare una sicurezza di sé, che dal massimalismo sfocia sempre nell’incertezza, lanciandosi nelle infinite diatribe della pop star in ascesa protagonista di Vox Lux, diretto da Brady Corbet e presentato all’ultimo Festival di Venezia. Portman si è affermata anche dietro la macchina da presa: il primo film che ha scritto e diretto, Sognare è vivere, del 2016, è tratto dal romanzo di Amos Oz Una storia di amore e di tenebra. Ma i temi a lei cari erano già evidenti nella sua prima interpretazione: a soli 13 anni si è calata nei panni di Mathilda, la scaltra assassina presa sotto l’ala dal Léon di Luc Besson. È raro che un’attrice possa definirsi longeva prima dei quarant’anni, che sia maturata sotto i nostri occhi, apparendo da sempre più matura di tutti noi. Affrontando ruoli da peso massimo che, a una prima occhiata, potevano sembrare potenzialmente rischiosi per le pressioni e le aspettative che li accompagnavano. Ma Portman non sbaglia un colpo. Dopodiché, come svanendo, lei va avanti con la sua vita, una vita che abbiamo imparato a considerare semplicemente «riservata». Almeno fino all’anno scorso. C’è la Natalie cresciuta sullo schermo e quella che gli è cresciuta accanto, ignara delle crudeltà perverse, degli abusi, dell’ostracismo e della discriminazione che dovevano affrontare le altre attrici più anziane. Oggi Portman non solo riflette sulla sua carriera, ma tenta attivamente di portare il cambiamento nel settore professionale in cui è cresciuta, tramite un’intensa collaborazione con i movimenti Time’s Up e #MeToo. «Quello che sta succedendo per me è strano, perché io in quegli ambienti ci sono stata», dice mentre ceniamo a Los Feliz. «Prendiamo il caso di Beautiful Girls: tutte le attrici del cast hanno deciso di parlare». Si riferisce alle sue coprotagoniste nell’opera della Miramax del 1996: Mira Sorvino, Uma Thurman e Lauren Holly hanno accusato pubblicamente Harvey Weinstein (e alla condanna si è unita anche Martha Plimpton). Portman, che allora aveva 15 anni, interpretava la tredicenne Marty. Nel suo discorso alla Women’s March del gennaio 2018, l’attrice ha raccontato di aver conosciuto presto gli effetti nocivi insiti nella natura del suo lavoro. «La prima lettera di un fan che ho aperto, tutta emozionata», ha ricordato, «conteneva una fantasia di stupro su di me. Quando stavo per compiere diciott’anni, la radio locale ha organizzato un conto alla rovescia per il mio compleanno, un eufemismo per dire che da quel giorno sarebbe stato legale portarmi a letto. Nelle recensioni i critici usavano espressioni come “seni acerbi”».
Eppure si ritiene «fortunata. Non so come sia riuscita a evitare determinate esperienze che molte mie colleghe hanno dovuto subire. Ashley Judd (sua coprotagonista in Qui dove batte il cuore e Heat, ndr), Mira Sorvino, Uma Thurman: donne che io ammiravo tantissimo, modelli da imitare. Con me erano gentili, mi sostenevano. È stato un vero shock apprendere cosa stavano vivendo». Pur avendo «sentito per anni le voci che circolavano su Harvey, e alle quali credevo», Portman non sapeva con esattezza «a chi fosse successo». Ha scoperto i nomi e l’entità degli abusi «quando lo hanno scoperto tutti. Viviamo in una cultura in cui è normale per un
uomo comportarsi male, e per una donna essere ferita», dice, per poi aggiungere che anche gli uomini possono essere vittime. «Ma le cose stanno cambiando. La prima reazione è stata: “Oddio, che brutta persona”. Adesso è: “Queste sono violenze, altro che brutta persona”». A uno sguardo attento, la sua carriera è costellata di alcune prese di coscienza. Una è nascosta nel discorso con cui, nel 2011, ha ritirato il Golden Globe come miglior attrice. Ringraziando Darren Aronofsky, Portman ha ricordato che, sul set del Cigno nero, il regista le diceva: «Adesso ripeti la battuta solo per te». «Per me fu un punto di svolta interiore», commenta. «Quel film parla di una ragazza che tenta in tutti i modi di compiacere gli altri, salvo poi scoprire come procurarsi il piacere da sola. C’era un forte parallelismo con la mia vita: provare gioia per quello che faccio è stato un grande, grande cambiamento. Ho pensato: “Ah, forse tutti gli altri c’erano arrivati prima. Io l’ho capito solo adesso che ho trent’anni”».
La collaborazione con Time’s Up l’ha fatta entrare nel nucleo incandescente di un mondo in cui si era sempre sentita isolata. «Lavoro da 25 anni, prima d’ora non avevo mai stretto amicizia con le colleghe», confessa. «Capita spesso di essere l’unica donna del cast. La battaglia comune ci ha fatte avvicinare. Ora ci raduniamo. Conoscere altre attrici e condividere informazioni ci aiuta a sentirci più sicure, produttive, realizzate». Sembra sinceramente galvanizzata da queste cene e riunioni a case alterne, che lei definisce «gruppi di persone affini», e a cui partecipano non più di una decina di colleghe. Le fa eco Brie Larson, che parla di una nuova «sorellanza». «Quando Natalie mi ha contattato ho pensato: “Perché io non conosco le mie colleghe?”. Di lì a poco ci siedevamo tutte insieme a parlare», racconta Larson. «E abbiamo scoperto che le nostre esperienze personali non erano poi così personali. Avevamo tutte vissuto situazioni simili e, condividendole, potevamo mettere a fuoco i passi concreti per intraprendere un cambiamento positivo. Sarò per sempre grata a Natalie, che ha una capacità miracolosa di risolvere i problemi e un cuore grandissimo e saggio. È una vera forza, e io mi sento fortunata a poter collaborare con lei». A ottobre, Portman è salita sul palco dell’evento Power of Women organizzato da Variety chiedendo la parità di genere in tutti i settori professionali. Ha elencato una serie di possibili azioni, tra cui il «pettegolezzo gentile», invitando i presenti ad «abbandonare i luoghi comuni come quello che tutte le donne sarebbero delle pazze isteriche. Se senti un uomo dire che una donna è una pazza isterica, chiedigli: ma tu che cosa le hai fatto?». Pur accettando a fatica il titolo di mentore delle colleghe più giovani, Portman ci tiene a imparare dalle nuove generazioni: si considera una della «vecchia guardia». «Apprendo moltissimo dallo sguardo delle ragazze di oggi, da come presentano la propria identità al mondo. È tutto così diverso. Mi piacerebbe poter ricambiare, donando loro un po’ di esperienza». Reese Witherspoon, produttrice del suo prossimo film Lucy in the Sky, afferma che «Natalie è piena di iniziative incredibili. Ogni tanto manda un messaggio a me e alle altre dicendo: “Mi è venuta un’idea pazzesca!”. Effettivamente, sono sempre ottime. Dopodiché arrivo io e chiedo: “Un attimo, dove troviamo i soldi?”. Un’altra di noi fa eco: “Questa cosa come si può realizzare?”. Formiamo una specie di squadra d’assalto, e lei è la nostra leader». Potremmo definire Natalie Portman, in assenza di un termine migliore, una millennial-cuspide, il che non fa che impreziosire la longevità della sua carriera. È nata a cavallo tra due generazioni, ma non è mai sembrata smarrita. Forse un po’ isolata, perlomeno nel suo modo di vestire l’eccellenza, la preparazione o il semplice portamento con un profondo silenzio, anziché un enorme frastuono.
Nata a Gerusalemme nel 1981, all’anagrafe fa Neta-Lee Hershlag. Nel 1984 i genitori si sono trasferiti negli Stati Uniti, dove Natalie ha acquisito la doppia cittadinanza. «Quand’ero piccola ci spostavamo un sacco», racconta, raddrizzandosi sulla sedia e accavallando una gamba sotto l’altra. Quando un argomento la porta a infervorarsi, appoggia i gomiti sul tavolo e le mani sulla bocca. Parla in modo sciolto ed energico, riempiendosi involontariamente le dita del rossetto rosa pallido indossato in questi scatti realizzati in una villa di Silver Lake, quartiere di Los Angeles. Con le dita coperte di rosa, intinge le crudité nel muhammara. Strappa un pezzo di focaccia di mais. Gesticola al punto che quasi le vola via il coltello, mentre parla di mercificazione delle notizie: «C’è ancora qualcuno a cui frega qualcosa? I giornali passano senza soluzione di continuità da casi di violenza al divorzio di una pop star! Il nostro presidente ha avuto una storia con un’attrice porno e nessuno batte ciglio». Portman è una che esprime le sue convinzioni politiche, talvolta facendo clamore, specie quando c’è di mezzo il Paese in cui è nata. Con Israele sostiene di avere un rapporto «complicatissimo, come
con un parente: gli vuoi un bene dell’anima e al tempo stesso lo critichi più di chiunque altro». La primavera scorsa è scoppiato un putiferio quando si è rifiutata di andare a ritirare il Premio Genesis 2018. «Tengo a chiarire che non ho problemi ad andare in Israele. Forse, ora, è un problema per loro ricevermi. Ho semplicemente scelto di non partecipare a un evento in cui avrei dovuto dividere il palco con il primo ministro Benjamin Netanyahu, e sedere accanto a lui. Sarebbe stato come schierarsi». Nella biografia di Natalie Portman, la laurea ad Harvard non è una semplice nota a piè di pagina. È stata tra i tanti assistenti ricercatori di Alan M. Dershowitz che, recentemente, ha fatto da consulente agli avvocati di Weinstein e ha espresso il suo sostegno al giudice Brett Kavanaugh. Cosa in merito alla quale Natalie non risparmia commenti: «Sono in disaccordo praticamente su tutto ciò che sta facendo». Gli studi in una prestigiosa università sono diventati sinonimo del rispetto che la circonda. «Legge qualsiasi cosa, ha una curiosità inesauribile. E non lo fa mai per dovere, solo per piacere», esclama Greta Gerwig, sceneggiatrice, regista e coprotagonista in Jackie. Portman ha la fama di essere un’attrice intelligente, attenta e precisa non solo nella recitazione, ma anche nella scelta dei ruoli. «Sono stata molto fortunata: all’inizio ho accettato alcune parti senza troppe riflessioni. Si trattava di film per adulti, non adatti ai bambini. Motivo per cui, però, sono stata incasellata in uno stereotipo femminile tipo Lolita. Questo aspetto mi ha dato molto fastidio».
Portman ha conosciuto il marito – Benjamin Millepied, danzatore e coreografo – sul set del Cigno nero. È rimasta incinta quasi subito, si sono sposati e nel 2014 trasferiti per due anni a Parigi, dove lui dirigeva il corpo di ballo dell’Opéra. Sono tornati a Los Angeles nel 2016. La maternità ricade nella parte «riservata» dell’attrice: a differenza di tante altre star, raramente si lascia fotografare con i figli e non li mostra mai sui social media. È un lato di lei che gli amici conoscono: «L’ho vista l’ultima volta qualche mese fa, con i bambini al seguito. Eravamo sulla Melrose avenue, all’altezza di Highland avenue. Mi ha gridato “ciao” dal marciapiede opposto», racconta Gerwig. «Quando penso a lei mi viene in mente la sua risata, una delle più belle che conosca – grassa, di gola, e fortissima – e me la vedo che strilla oltre le strisce pedonali. È divina». La famiglia ha da poco dato il benvenuto a un quinto membro: ha adottato un Terrier meticcio. Los Angeles è un posto ideale per trovare l’equilibrio tra famiglia e lavoro e, a lei, il lavoro non manca. Il suo prossimo film in uscita sarà La mia vita con John F. Donovan di Xavier Dolan, con Jacob Tremblay e Kit Harington. Lo scorso luglio sono cominciate le riprese di Lucy in the Sky, in cui Portman recita accanto a Jon Hamm, Zazie Beetz e Dan Stevens. Ha anche in progetto di dirigere e recitare in un biopic sulle due gemelle rivali che tenevano rubriche di consigli firmandosi Ann Landers e Abigail Van Buren. Vox Lux, un film che Brady Corbet definisce mezzo impressionista e mezzo espressionista, racconta la storia di Celeste (interpretata, nella prima parte, dalla quindicenne Raffey Cassidy), sopravvissuta a una strage nella sua scuola, che diventa famosa grazie a una canzone scritta in ospedale con la sorella (Stacy Martin) mentre guarisce dalle lesioni alla spina dorsale causate dai proiettili. Portman fa la sua comparsa a metà storia, nei panni di Celeste adulta. È un’interpretazione enorme e a doppia velocità: un forte accento di Staten Island e un volteggiare frenetico come l’ago di una bussola rotta. L’attrice crea il caos con un arsenale di tic: mastica la gomma rumorosamente, beve il vino con la cannuccia, comunica dolore da dietro i grandi occhiali scuri, con la sua falcata decisa e languida insieme. Sfreccia di scena in scena parlando per frasi fatte e invettive paranoiche, bullizzando tutti e attaccando briga con chiunque: la figlia, il manager (interpretato da Jude Law), la sorella, i tecnici della crew, un giornalista. Un sommesso duello con un giornalista, interpretato da Billy Crudup, faceva da fil rouge anche in Jackie. In entrambi i film, le donne sono perfettamente consapevoli degli infiniti fraintendimenti a cui vanno incontro, cosa di cui Portman stessa non è ignara. «Sono appena stata intervistata per una rivista femminile. Di fronte a una telecamera la giornalista non faceva che chiedermi: “Allora, ce l’ha anche lei un aneddoto sul #MeToo?”. E io: “Ne ho come ne hanno tutti”. Ma lei: “Le va di fare i nomi?”. Ero inorridita». Tutte informazioni incanalate nel ruolo di Celeste. Portman è «precisissima, meticolosa», osserva Corbet. «È l’attrice migliore con cui abbia mai lavorato. È incredibile quando hai a che fare con una persona che colora stando dentro ai bordi, ma usando sfumature intense». Jude Law, che con Natalie Portman ha girato altri tre film – Un bacio romantico - My Blueberry Nights, Closer e Ritorno a Cold Mountain – dice che Portman «ha fatto fare a tutti un salto di qualità, per via della sua personalità. Ci siamo conosciuti in fasi diverse delle nostre vite, ed è sempre stato interessante ritrovarla. Negli anni abbiamo costruito un senso di fiducia, di reciproca comprensione». Sia Corbet che Law, per descrivere Natalie, ricorrono all’immagine della ballerina. Può sembrare scontato, non ultimo per via del Cigno nero, ma lei ricorda una frase della scrittrice ed ex danzatrice Maggie Nelson: «Alle prove ci dicevano che cadere era importante, per capire a che punto un movimento diventava insostenibile. Così poi, quando lo rifacevi sul palco, sapevi fin dove ti potevi spingere senza perdere l’equilibrio. Se non tocchi il fulcro, non riuscirai mai a percepirlo fisicamente, e questo impoverirà i tuoi movimenti». Portman recita toccando il fulcro. È affilata e indefinita. Passa sullo schermo, lancia un’occhiata di spalle, rende iconica una parrucca rosa. Una testa rasata. Un nastrino nero intorno al collo. Un grosso paio di cuffie. Delle perle, un cappellino tondo. Delle ali. Una corona. [traduzione di Matteo Colombo] Pag. 47: abito, Rodarte. Orecchini, Harry Winston. Collier, Bulgari. Pagg. 48-49: abito, Oscar de la Renta. Orecchini, Harry Winston. Pag. 50: abito e reggiseno, Dior. Orecchini, Harry Winston. Pag. 51: abito, Miu Miu. Orecchini, Harry Winston. Collant, We Love Colors. Scarpe, Stella McCartney. Pag. 53: abito, Dior. Orecchini, Harry Winston. Make-up Romy Soleimani; manicure Jenna Hipp, entrambe using Dior Beauty. Hair Orlando Pita using Orlando Pita Play. Set design Ariana Nakata. Produzione in location Portfolio One.