Vanity Fair (Italy)

IL BELLO DI DIVENTARE VECCHIO

Nell’ultima fase della sua vita, si prepara a ricamare centrini. Ma nel frattempo l’attore, che ritroviamo al cinema con Argentero, è sempre più interessat­o agli anni che passano. Perché adesso finalmente «ho dentro tutte le età»

- di ENRICA BROCARDO foto FRANCESCO BERTOLA servizio SARAH GRITTINI

La voce di Tommaso Ragno è piena, avvolgente. «Fin da ragazzo l’ho coltivata perché diventasse uno strumento, anzi un’orchestra. Mi ha aiutato tanto sul lavoro e nella vita. Posso dire qualunque stronzata che mi stanno a sentire», chiude con una risata trattenuta. Al Vittoriale, sta girando Il cattivo poeta «che è D’Annunzio, interpreta­to da Sergio Castellitt­o, io sono il suo architetto». Mentre il 7 febbraio arriva al cinema con un altro film: Copperman. Il protagonis­ta è Luca Argentero, sorta di Forrest Gump che usa la spregiudic­atezza della sua innocenza come un super potere. Tommaso Ragno è il suo mentore – artigiano che ha costruito per lui un’armatura di rame. È tardo pomeriggio in un hotel sul lago di Garda. Tempo di riposarsi dopo una giornata di lavoro cominciata alle 5 di mattina. Ma non parliamo di fatiche, semmai di privilegi, «come quello di vedere aree del Vittoriale nelle quali da visitatore non ero mai stato. E di trascorrer­ci molto tempo».

Di quali altri privilegi gode come attore? «Non dover essere sempre me stesso, o meglio non recitare sempre la stessa parte. Pensiamo di essere davvero quello che siamo nel quotidiano. Ho scoperto che non è così: non si è meno veri quando si sta dentro una finzione. Anzi. Sui social, per esempio, si tende a dare l’immagine di sé che si ritiene migliore, quindi in un certo senso a mentire, ma si mente ancora di più a se stessi, nel proprio intimo, rispetto a quando si è chiamati a recitare davanti a un pubblico. Attraverso la rappresent­azione si toccano verità profonde. Nella finzione si sperimenta­no realtà lontane, si scatena la curiosità necessaria a scoprire altre parti di sé». Gli attori passano molto tempo in viaggio, negli hotel invece che a casa. Un privilegio anche questo o una condanna? «Da giovane, grazie alle tournée di teatro, ho scoperto l’Italia, dopo un po’ però può diventare stancante. Non amo il vagabondag­gio in sé, ma è bello alternare partenze a ritorni, la distanza ti fa scoprire cose che da vicino non vedi. E, poi, avere momenti in cui non fai nulla. Anche il non lavorare nutre il tuo lavoro». All’inizio che cosa l’ha spinta a voler fare questo mestiere? «All’epoca non c’era Internet. Non potevo diventare youtuber». Oggi, con trent’anni di meno, potrebbe? «No. Ho fatto teatro fin da giovane e il teatro è l’unica arte che non può esistere in Rete. Non è riproducib­ile, esiste mentre lo fai. Il pubblico ogni sera è diverso, e anche tu». Lei ha studiato alla scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano. «Sono nato a Vieste ma sono cresciuto a Piacenza. Una città di provincia ha significat­o tanto tempo per starmene da solo con me stesso e accorgermi che c’era questa possibilit­à. Oscurament­e, sentivo che mi avrebbe dato equilibrio. Perché? Non lo so. Anzi, non lo voglio sapere. So solo che svegliarsi la mattina per andare su un set dove, per ore, sarai altrove è bello. E che altrettant­o bello per un attore, l’ho scoperto di recente, è invecchiar­e». Perché? «Osservo con sempre più interesse gli attori anziani e mi rendo conto che hanno accorciato la distanza fra loro stessi e quello che fanno. Tanto che sembra che non recitino più. Quando invecchi hai dentro di te tutte le età e comprendi cose che da ragazzo non potevi capire. Non avrei mai pensato che il meglio per me, come uomo e di conseguenz­a come attore, potesse arrivare adesso». In un’intervista per Vanity Fair Claudio Amendola, con il quale ha recitato di recente in Hotel Gagarin, ha detto che il pubblico si è accorto di lei solo dopo la serie Il miracolo, andata in onda su Sky lo scorso anno. Un po’ è vero. «È vero che un dato ruolo, con quel livello di complessit­à, in una data serie, in un dato momento della mia vita ha fatto sì che il pubblico mi notasse. Non solo quella che in inglese chiamano una overnight sensation». Da più grande che cosa le piacerebbe fare? «Continuare a fare questo lavoro e, magari, nell’ultima fase della vita dedicarmi anche ad altro. Imparare a cucire, a fare i centrini, a cucinare». I centrini? È lecito, ma sul serio? «Non so, mi vengono in mente solo cose banali». L’orto? «Sì. O qualcosa che abbia un valore anche per gli altri. Già lo si può fare con questo lavoro. Dire che un medico è più utile di un attore è una forma di cinismo in cui non credo. Certe interpreta­zioni, certi film sono importanti, ci influenzan­o o anche, soltanto, portano un po’ di bellezza nelle nostre vite».

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