Parecchi lavorano già. Ci hanno raccontato di paghe da cinquanta euro a settimana per fare i baristi
Non li avrà mica visti tutti. «Certo che sì. In video o di persona. Ho trascorso un paio di anni a Napoli, tra Rione Sanità e i Quartieri spagnoli, dove è ambientato il film. Ho passato un sacco di tempo nei baretti, nelle sale giochi, per strada. Il film è nato attraverso quegli incontri. Ho 40 anni e vivo a Roma, non conoscevo per niente quella realtà, rispetto ai ragazzi ero quello che ne sapeva di meno di tutti. Il vero lavoro è stato conoscere il luogo, le persone». Come ha trovato i ragazzi giusti? «Con quelli che ci sembravano più interessanti fissavamo un secondo incontro nel nostro ufficio. Ma a molti di loro non importava nulla di recitare in un film. Francesco Di Napoli, il protagonista, ci abbiamo messo un po’ per convincerlo. Al primo appuntamento non si è presentato proprio. Siamo dovuti tornare a cercarlo e convincerlo». Forse sarebbero stati più entusiasti se si fosse trattato di un talent show. «Non lo escludo. Ma è vero che questi ragazzi hanno parecchio da fare, anche se sono minorenni parecchi lavorano già. Ci hanno raccontato di paghe da 50 euro a settimana per fare i baristi». Il libro di Saviano è ispirato a fatti che risalgono al 2010. Da allora il fenomeno dei baby camorristi è cambiato? «Non le so rispondere. Il fatto è che a me la cronaca non interessa, volevo dare alla storia una dimensione più universale, mostrare che cosa significa per un adolescente dover prendere una decisione del genere, fare una scelta criminale che diventa irreversibile. Non è inusuale e non succede solo a Napoli. Lo stesso accade nelle periferie di Roma, Milano e in molte altre città del mondo. E questa scelta riguarda ragazzi di 14-15 anni. A quell’età, per me, si trattava al massimo di capire se mi andava di studiare al liceo o no». Lei in che ambiente è cresciuto? «Vengo da una famiglia piccolo-borghese, nel mezzo preciso». E com’era da ragazzo? «Per niente cinematografico. Normale». Si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia e una delle sue prime esperienze è stata in tv per la trasmissione Blob. Com’era? «Più la televisione è brutta, più è bello un programma di quel tipo. In pratica, significava che mi dovevo guardare ore di monnezza per selezionare gli spezzoni. E siccome ero uno dei più giovani, mi davano la peggio roba. L’ho fatto per quattro anni, alla fine era diventato faticosissimo: le notti e ogni domenica pomeriggio le passavo incollato allo schermo. Perché non è che puoi alzarti, cucinarti qualcosa, devi stare concentrato come se stessi guardando un film di Sergio Leone. I primi due anni studiavo ancora e alle nove di mattina dovevo presentarmi al Centro sperimentale dopo aver dormito solo poche ore. Ce l’ho fatta perché avevo vent’anni, oggi non avrei più il fisico». I suoi documentari, come Fratelli d’Italia, e i film come Fiore o Alì ha gli occhi azzurri parlano tutti di adolescenti e spesso di immigrazione, di mancata integrazione. Possiamo dire che, anche se in modo indiretto, il suo è un cinema politico? «Be’, sì. Solo mostrare certe realtà, un luogo rimosso come il carcere o la periferia multiculturale delle nostre città, che troppo spesso viene raccontata come il Medioevo o con approccio retorico e buonista, è di per sé un atto politico».
Mangiamo un panino dopo l’intervista. Mi fa: «Ha notato che non ho citato neppure una volta Matteo Salvini? Mi sono ripromesso di non nominarlo». Rispondo: «Sì. E lei ha notato che io non le ho fatto neppure una domanda su Matteo Salvini?».
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