Vanity Fair (Italy)

CHIAMAMI COL MIO NOME

- di SILVIA NUCINI foto ATTILIO CUSANI styling VALERIA SEMUSHINA

Non sempre il nostro corpo dice davvero chi siamo. Qualche volta trovarci e riconoscer­ci è un viaggio di trasformaz­ione che per alcuni inizia fin da piccolissi­mi. Ci siamo fatti raccontare il cammino – appena iniziato – di quattro ragazzin* trans. E abbiamo deciso di mostrarvi anche i loro volti. Perché il coraggio è una musica allegra. E contagiosa

«Ma io fatica, per chi era lei, non l’ho mai fatta davvero», dice Roberta, sua mamma. «Avevo questo figlio che già da piccolissi­mo amava mettersi le mie scarpe e le mie gonne in testa, per fare finta di avere i capelli lunghi. All’inizio non ci facevo nemmeno caso, ma quando mi è sembrato che questo gioco stesse diventando un’ossessione, io e suo padre – siamo separati, ma sempre genitori – ci siamo rivolti a una psicologa. È con lei che tutto è diventato dolore, pena e colpa: colpa del papà che doveva simbolicam­ente rompere tutti i giocattoli

rosa che Luca ci chiedeva e che erano gli unici a renderlo felice; della nonna stilista: poteva essere lei a ispirare i travestime­nti; colpa mia, non so nemmeno più per cosa. Di fatto quello che questa dottoressa ci stava facendo fare – e me ne sono resa conto solo anni dopo – era un percorso di riconversi­one. Luca capiva tutto: le pressioni, i non detti, l’idea che fosse sbagliato. E allora mi prometteva: mamma, quando cresco smetto».

Ludovica, seduta accanto a sua madre che racconta, ricorda quelle sessioni di devastazio­ne dei giochi come il massimo della finzione, il massimo del dispiacere. «Facevo credere a papà che andava bene, ma poi ero tristissim­a. Cercavo solo di farli contenti». È stato quando suo padre ha detto basta a quella continua tortura, e hanno smesso di vedere la psicologa, che lei ha potuto parlare: «Un giorno, era in terza elementare, l’ho trovata in camera che piangeva. Mi ha detto: “Sono triste, mamma, perché non mi piaccio”. Perché sei un maschio? Le ho chiesto. “Sì”, mi ha risposto. Noi lo sapevamo da sempre e gliel’ho detto. E poi solo: Non ti preoccupar­e».

Da allora Ludovica ha iniziato un viaggio di avviciname­nto alla sua identità femminile, fatto di piccoli, fondamenta­li, dettagli: i capelli lunghi; i colori, proprio tutti, e in tempi più recenti una gonna – due anni fa –, il reggiseno riempito con la carta igienica, e il trucco che per la ragazzina è «uno scudo, un’arma di difesa, l’idea che mi fa svegliare felice».

Ludovica è una dei tanti adolescent­i gender variant che sono in attesa di ricevere i farmaci bloccanti dello sviluppo sessuale, farmaci già disponibil­i in moltissimi Paesi. Hanno fatto un paio

di incontri all’ospedale Careggi di Firenze, presentato una dettagliat­a documentaz­ione – dalla perizia psichiatri­ca alle radiografi­e per attestare il grado di sviluppo – e sono in attesa di un benestare da parte del Comitato Etico. Autorizzaz­ione che, da quando (nel 2018) l’Agenzia del Farmaco ha concesso l’uso dei bloccanti per la pubertà atipica anche nel nostro Paese, non risulta essere ancora mai stata concessa a nessuno.

«Il momento giusto in cui assumerli non è lungo. Se lo lasciamo trascorrer­e, Ludovica dovrà passare direttamen­te agli ormoni. Ma se i caratteri sessuali secondari si manifestan­o, tutto diventa più complicato». Intanto, l’anno prossimo, con l’inizio delle superiori, la ragazza farà la transizion­e sociale: si presenterà come Ludovica. «Quando avrà scelto la scuola andrò a parlarne con il preside. A lei non importa molto che la chiamino ancora Luca – qualche volta lo faccio anche io – ma il nome è un pezzo del viaggio. Siamo stati fortunati: non ha mai avuto problemi con amici e compagni che l’hanno sempre accolta senza chiusure o pregiudizi». I genitori della classe si sono offerti di autorizzar­la a dormire con le femmine durante il campo scuola, e il preside già da tempo le fa usare i bagni femminili: «Di andare dai maschi», dice lei, «avevo un po’ paura». E questa è l’unica volta in cui Ludovica usa la parola paura. «Sono una persona forte, non mi vergogno di chi sono, non voglio raccontare bugie. A chi mi chiede spiego, a chi mi chiederà spiegherò, anche quando per tutti sarò Ludovica».

Alessio ha 17 anni, suona la tromba e la chitarra, ha tre cani, due fratelli e uno in arrivo, due sentenze: una dice che quando vuole potrà togliere il vecchio nome femminile dalla carta d’identità, l’altra lo autorizza, primo minorenne in Italia, a rimuovere – a carico del Servizio Sanitario Nazionale – l’utero e le ovaie. Non sa ancora quando lo farà; Denise, sua madre, insiste per il prossimo maggio. Lui, invece, vuole finire bene la scuola: i diritti per cui si è combattuto va anche bene tenerseli un po’ in tasca, una volta che li hai.

Le date importanti della vita di Alessio, Denise se le ricorda tutte: era il 2 luglio del 2013 quando gli è arrivato il ciclo, e la ragazzina che era prima di essere lui si è messa a piangere disperata. Era una sera dei primi giorni di maggio del 2016 quando, portando a spasso i cani, quella stessa ragazzina ha comunicato a sua madre che durante i concerti voleva vestirsi con la giacca e la cravatta, come gli uomini.

«Improvvisa­mente tutto ha avuto un senso. Gli ho detto: “Ti aiuto, ma anche tu devi aiutare me”. Cosa posso, cosa devo fare? Alessio piangeva, ma sapeva già tutto: dove andare, a chi rivolgersi. Siamo tornati a casa, ho svegliato suo padre, gli ho detto: “Ti deve parlare”. E mentre lo faceva io ero già attaccata al cellulare a cercare informazio­ni. Il giorno dopo chiamavo l’associazio­ne Genova Gaia, tre giorni dopo eravamo lì, e lì per la prima volta hanno chiamato Alessio “Alessio”. E poi è successo tutto veloce: l’endocrinol­ogo, la psichiatra. Sei mesi dopo – era il 30 novembre – prendeva per la prima volta il testostero­ne. Era troppo grande per i bloccanti, siamo passati direttamen­te agli ormoni».

Alessio ascolta la sua storia e si tormenta i peli della barba che porta rotonda intorno al viso. «Sapevo tutto sulla transessua­lità perché erano anni che ogni sera cercavo informazio­ni in Rete. Avevo scoperto di non essere l’unica persona a provare quelle emozioni – il mio sentirmi strano da bambino, il fastidio, a volte odio, per il mio corpo che cambiava – ma la maggior parte dei video che trovavo erano in inglese e comunque quando ho iniziato a cercare avevo solo dieci anni: non capivo, e non solo la lingua». Nel gennaio del 2017, dopo aver portato per un po’ il binder, una fascia che comprime il seno, Denise lo porta in Spagna a fare l’intervento di

mastectomi­a totale. Costa più di 5 mila euro, lei fa le pulizie, i soldi non sono tanti, ma quando Alessio si sveglia senza più quei seni che per anni aveva cercato di nascondere è davvero felice. Il testostero­ne ha fatto il resto e, quando gli chiedo quale delle tante definizion­i – gender variant, fluid, trans, Female to Male – lo rappresent­a di più mi risponde: «Sono solo un ragazzo».

«Mi hai rotto i coglioni, smettila, sei un maschio», urla. «Ma io voglio essere una femmina», risponde tranquillo Marco che, nonostante tutta quella confusione, alla fine tornerà a casa con la cartella rosa con le fatine. Essere una fatina è quello che chiede ogni giorno quando recita la preghiera buddista: Nam Myoho Renge Kyo.

Quello di Marco, che d’ora in avanti chiameremo Greta, e Cinzia non è stato, e non è, un percorso facile: Ravenna è una città che sa avere le sue porte chiuse e le sue ipocrisie. «Greta, a 13 anni, non sa ancora che cosa sia l’amicizia. L’hanno chiamata “frocio”, l’hanno presa in giro per i colori “sbagliati”. Non ha molti amici intorno», ammette Cinzia. Greta non sembra troppo preoccupat­a dalla sua solitudine, forse perché a tenerle compagnia c’è la nuova se stessa, che sta cercando di costruire: i colpi di sole, i buchi alle orecchie, una borsettina piccola, il sogno delle extension che forse si farà quando andranno in vacanza in Spagna, perché là costano meno. «Poter essere un po’ femminile fuori casa per me è una cosa nuova. Per tanto tempo l’ho potuto fare solo qui dentro. Una volta ho convinto la mamma a ordinare anche un abito da sposa su Internet, ma dobbiamo aver sbagliato qualcosa perché è arrivato solo il velo». I figli di Cinzia sono stati seguiti entrambi da una psicologa, perché nati prematuri. «È stata lei a consigliar­ci di lasciarla essere se stessa, ma solo al riparo da occhi indiscreti. Io non sapevo se fosse giusto, poi mi sono informata, ho letto tanto in Rete, mi sono confrontat­a con altre mamme e adesso decidiamo io e suo papà Luigi, che è anche più aperto di me, cosa è giusto fare». Anche Greta è in attesa dei bloccanti a

Firenze: hanno fatto tre colloqui, ma l’iter è lungo. Lei odia questi incontri, perché ogni volta si illude che sia il giorno in cui le daranno i farmaci. Vorrebbe che succedesse tutto subito, perché sta crescendo alla svelta e questo la rende triste. La

doccia se la fa con la luce spenta, le sue compagne di classe le lasciano usare lo spogliatoi­o femminile della palestra, ma lei non ci va volentieri perché lì si ritrova in mezzo a corpi che non assomiglia­no al suo. «Dell’accettazio­ne degli altri non mi interessa, mi dispiace per il mio gemello, che aveva capito tutto prima degli altri, a cui gli amici chiedono sempre se sono un maschio o una femmina. Dice che se divento donna lui non è più mio fratello. Ma non lo so se è vero».

«Siamo andati via dall’Italia per diversi motivi», racconta sua mamma Gabriella. «Certo, anche per avere la possibilit­à di una vita più serena per lei». Gabriella è svizzera, dice che da loro non c’è questa idea così italiana delle cose da maschio e cose da femmina, per cui per lei che Elisa ballasse, si mettesse i suoi vestiti e le sue scarpe era solo segno di un temperamen­to artistico. «Ho sempre pensato che le donne possono fare tutto e gli uomini, ugualmente, possono fare tutto». Poi sono arrivate le crisi di rabbia, apparentem­ente inspiegabi­li, il grembiule nero della scuola misteriosa­mente scomparso, il rifiuto di vestirsi la mattina, il fatto che in prima elementare la maestra dovesse tenerla ferma fino a quando non si chiudeva il portone, se no Elisa scappava. Un giorno al supermerca­to Gabriella dice ai figli: vi compro quello che volete. Elisa torna con un vestitino

a fiori che da quel giorno si metterà – all’inizio solo in casa – tutti i giorni: «Lo lavavo ogni sera perché fosse asciutto la mattina». Lo spazio domestico della sua femminilit­à si allarga via via, ed Elisa si veste come vuole anche nelle vacanze e nel tempo libero dalla scuola: capita che vada ai giardinett­i con una gonna. «Alla fine della prima elementare io e il papà siamo stati chiamati dalla Procura: qualcuno ci aveva segnalati perché vestivamo nostra figlia da femmina. Siamo stati interrogat­i separatame­nte, a lungo. A mio marito è stato chiesto se, in quanto padre, non riusciva a educare Elisa come un maschio. Non abbiamo mai saputo chi ci avesse segnalato né se il procedimen­to sia mai stato archiviato. Non è per questo che abbiamo lasciato l’Italia, ma l’episodio è sintomo di qualcosa che non funziona». Dopo la nostra conversazi­one Gabriella mi ha mandato un messaggio WhatsApp. «Volevo aggiungere una cosa», mi scrive. «Dico sempre a mia figlia che lei è Elisa perché è questo che sente di essere, non per il corpo che ha. Che esistono tanti tipi di donne: anche quelle senza seno

e con il pene. Che c’è moltissimo tempo per decidere, che tornare indietro è sempre possibile. Il mio lavoro è farla crescere sicura in modo che possa disporre in libertà del suo corpo, senza piegarsi alle pressioni. A nessuna pressione».

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