Vanity Fair (Italy)

IL MIO CLUB NON HA MURI

- di ALBA SOLARO foto CRAIG M DEAN c

Alcuni mesi fa, in una notte insonne, Lou Doillon ha preso le forbici da cucina e si è tagliata da sola la sua bella frangia, poi ha postato su Instagram la foto delle ciocche nel lavandino con un commento: «Impulsive». Lo stesso gesto fatto da una comune mortale non sarebbe finito il giorno dopo su Vogue. Quello che lascia tramortiti è la naturalezz­a con cui la figlia di Jane Birkin e Jacques Doillon, nonché sorella di Charlotte Gainsbourg, si porta in giro la sua bellezza parigina e bohémienne. La incontriam­o a Milano, è appena tornata dalla sfilata di Gucci, la sua stanza d’albergo è «accuratame­nte» in disordine. Prende una Coca-Cola dal frigo bar, si accende una sigaretta, ci sediamo in balcone nella golden hour del tardo pomeriggio a chiacchier­are del suo terzo album, Soliloquy. Di tutte le cose che fa – modella, attrice, disegnatri­ce – la musica è quella a cui tiene di più.

Ricorda il momento in cui è nata questa passione? «Avrò avuto cinque anni. Sono entrata di nascosto nella stanza della mia babysitter perché lei aveva la tv, mentre a noi bambini era vietato guardarla. E sono inciampata in un videoclip dei Les Rita Mitsouko, duo new wave francese degli anni ’80. Credo fosse C’est comme ça, girato da Jean-Baptiste Mondino. Mi è letteralme­nte esplosa la testa». Era così bello? «Non era tanto il video quanto Catherine Ringer, la loro cantante. Una regina. Adoro mia madre, ma davanti a Catherine ho pensato: wow, allora donne così esistono». Così come? «Che non si fanno dire da nessuno come devono cantare. Tutte donne forti, quelle di cui mi sono regolarmen­te innamorata: Siouxsie, Nina Hagen, Patti Smith, Nina Simone… Ci sono ovviamente vagonate di artisti maschi che adoro, ma se avessi dovuto prenderli come ispirazion­e non avrei mai fatto musica». La spaventano? «Mi fanno pensare che non riuscirei mai a essere come loro. Amo David Bowie, ma come potrei essere come lui? Amo Leonard Cohen ma non avrò mai quella voce. E Bob Dylan… Uomini gigantesch­i che non posso non ammirare, ma proprio per questo mi fanno passare la voglia di tentare. Con le donne non mi succede». A proposito di uomini gigantesch­i, com’è stato lavorare con Karl Lagerfeld? «Stargli accanto ti faceva sentire piccola, per via della sua immensa, compulsiva curiosità. Girava con sei o sette iPod che i suoi assistenti aggiornava­no in continuazi­one. La prima volta che ho lavorato con lui ero un’adolescent­e e sulla mia generazion­e ne sapeva molto più di me. In questo poteva essere spietato. Appena odoravi di vecchio, eri fuori in un istante». Di cosa parlavate? «Di tutto meno che di moda. Opera, architettu­ra e libri. Avevamo un legame speciale con i libri. La biblioteca del suo studio aveva scaffali pieni fino al soffitto, allora lo provocavo: scommetto che non sai cosa c’è lì a destra sul quinto scaffale… Ovviamente lo sapeva. Un giorno ha tirato fuori un volume, era La pelle di Curzio Malaparte, ne abbiamo parlato per ore. Ci siamo rivisti un anno dopo per un altro shooting, e mi ha chiamato da parte: “Vieni che ho qualcosa per te”. Era un libro sulla casa di Malaparte con le foto fatte proprio da Karl. “Cade a pezzi, speriamo di trovare i fondi per

restaurarl­a”. Pazzesco, era passato un anno ma ricordava tutto. Mi ha insegnato che non c’è nulla di peggio che pensare di sapere già, in realtà non sappiamo un fottuto niente». Soliloquy è un bel titolo, che album voleva che fosse? «Diverso dai primi due. Non volevo più fare pezzi chitarra e voce per poi darli in mano a un produttore, volevo uscire da quella comfort zone. Ma come? Ho chiamato il batterista e il chitarrist­a della mia band e gli ho detto: non seguite la melodia, tirate fuori tutta l’energia possibile. Unica eccezione, It’s You». Il duetto tenerissim­o con Cat Power. «Ci siamo conosciute a un suo concerto parigino, lei aveva avuto da poco suo figlio, io invece ho praticamen­te un uomo! Mio figlio Marlowe ha quasi 17 anni. È stato buffo, lei è nella musica da molto più tempo di me, le chiedevo consigli sul lavoro, e lei me li chiedeva sull’andare in tour con un neonato (ride). Ci sono rimasta male quando mi ha scritto che non aveva il tempo di produrre It’s You. “Almeno mi ha risposto”, ho pensato, molti neanche lo fanno». Poi ci ha ripensato? «Merito del mio fidanzato. Mi ha detto “mandale lo stesso la canzone”. Le ho spedito il file con due ritratti di donne scattati da Dorothea Lange negli anni Trenta e una lunga mail in cui le dicevo: questa non è una canzone d’amore triste, al contrario, è sulla felicità di saper amare, a prescinder­e dall’essere ricambiati o meno. Il pezzo le è piaciuto così tanto che ci ha aggiunto la sua voce, e me l’ha rispedito via mail. Ero così emozionata che prima mi sono infilata nella vasca da bagno con l’acqua fino al collo e solo a quel punto ho premuto il tasto play per ascoltarla. La bellezza di quello che aveva fatto mi ha ucciso». Somiglia più a sua madre o a suo padre? «Credo di essere un mix. Mia madre è stupenda perché non ha paura di niente. È una virtù da pazzi, del resto lei è matta. Pensa che nulla possa accaderle, va a Sarajevo durante la guerra, mi trascina neonata nei posti più assurdi: ha una fede straordina­ria nell’umanità. Mio padre è uno che osserva, ascolta; lo incuriosis­cono le persone, per questo è così bravo a scrivere i dialoghi dei film. Io sono lì, in mezzo al pazzo amore di lei per il mondo e l’attenzione di lui». Si sente rock’n’roll solo nello stile o anche nella testa? «Nel senso di ribelle? Non nel modo in cui gli altri se lo aspettano. Sono educata, puntuale, se prendo un impegno lo mantengo. Non è molto r’n’r, vero? Ma di sicuro faccio solo quello che voglio; non ho mai fatto parte di nessun club se non del mio». Patti Smith voleva somigliare a Keith Richards, e lei? «A Keith Richards! È una delle mie icone di stile, Come Jimmy Page dei Led Zeppelin, e Juliette Gréco: la frangia e l’eyeliner sono un omaggio a lei. E poi Anna Karina, la musa di Godard. Nel video di Too Much ho inserito un omaggio a lei e uno a Querelle de Brest di Fassbinder». Le piace giocare con l’androginia? «Mi piace giocare con i codici. Femminile, maschile… Ma siamo nell’era del genderless, niente più codici, e ora con cosa gioco? (ride) Mi affascinan­o questi ragazzi che arrivano coi tacchi alti, mi viene da chiedergli, quindi sei più un maschio o… E loro giustament­e mi guardano come se fossi un dinosauro!». Chi suona al festival rock dei suoi sogni? «Oh è facile: Cat Power, Patti Smith, Florence and the Machine, Lana Del Rey. E Nick Cave, il mio mentore. I suoi concerti sono diventati un’incredibil­e liturgia d’amore. Quel tipo di abbraccio collettivo di cui parlo in Brother, il pezzo che apre il disco». Cosa le ha ispirato Brother? «Sono nata in un mondo in preda all’euforia. Il mio primo ricordo della tv è del 1989, il Muro a Berlino che veniva giù in diretta. La gente urlava di felicità nelle strade di Parigi, a casa mia tutti si abbracciav­ano, era bellissimo. Il mondo era nostro, nasceva l’Europa, una moneta uguale per tutti, niente barriere… E all’improvviso sono qui che sto crescendo un ragazzo in un mondo che tira su nuovi muri, chiude le frontiere… Ma che diavolo è successo? Ho solo 36 anni, come abbiamo fatto a passare da un mondo dove eravamo tutti fratelli, a questo?».

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