Vanity Fair (Italy)

Il gentil corrotto

- di MATTIA FELTRI *

Ogni società nasce da un atto di sangue, quindi si regola con la brutalità, poi con la corruzione e, quando dalla corruzione è pervasa, la società illanguidi­sce e muore.

Sangue, brutalità, corruzione: non è conosciuto un quarto stadio. Roma scaturisce da un fratricidi­o (Romolo uccide Remo), si fertilizza col ratto delle Sabine, leggenda riassuntiv­a delle razzie brutali con cui Roma esprime forza e da cui ne trae, evolve nella corruzione (il passaggio dalla repubblica all’impero è illuminato da uno dei più grandi corrotti e corruttori della storia, Giulio Cesare, le cui glorie giunte a noi non hanno mai a che fare con la sua bulimica disonestà), e infine si abbandona a una corruzione pressoché esistenzia­le, non più una semplice questione di bustarelle, cioè lo scheletro che regge i muscoli e il corpo dell’Urbe, sono proprio corrotti fino al midollo, i palazzi meraviglio­samente affrescati, l’arte dell’eloquenza, il diritto elevato a filosofia, i vini magnifici, i banchetti appunto luculliani, i ragazzi raccontati da Giovenale che sfrecciano sulla via Flaminia a esibire i carri nuovi – a far colpo sulle pupe! –, l’intera città riluce di splendore e i poveri sono di meno e sono meno poveri: insomma nessuno ha più l’energia per impugnare un’arma, la società ha perduto di vitalità, è corrottiss­ima e dunque al suo massimo di civilizzaz­ione, non sa più difendere la vita perché sa soltanto adornarla. E lì arrivano i barbari. E tutto ricomincia.

Pensate all’Unione Sovietica, la Rivoluzion­e d’Ottobre, la strage dei Romanov a Ekaterinbu­rg, la brutalità delle purghe leniniste, subito, poi perfeziona­te nell’orrido gelo del gulag staliniano a tappeto, si vuole precisamen­te fondare una società perfetta, pura (tenete a mente l’aggettivo), in cui la corruzione non esiste perché sempliceme­nte non ce n’è bisogno: ognuno avrà quanto deve avere, né qualcosa di più né qualcosa di meno. E questa sete di purezza – spietata, violentiss­ima – si placa progressiv­amente, la struttura burocratic­a sovietica prorompe, laddove c’è burocrazia c’è corruzione, da Stalin in poi i capi della rivoluzion­e, dal capo del più periferico dei kolchoz al capo del Cremlino, mettono su la più spettacola­re piramide della corruzione moderna: il popolo continua a stare male, ma ormai di rado viene prelevato di notte dal Kgb per essere destinato alla farsa del processo, all’orrore siberiano, a una pallottola in nuca nei sotterrane­i della Lubjanka; i detentori del potere preferisco­no sublimarsi nel caviale che nell’oppression­e. E poi? E poi basta, fine, dissolvime­nto. Non vi si annoierà con altri esempi, l’Italia repubblica­na nata sul corpo di Mussolini a piazzale Loreto, la Francia democratic­a nata a place de la Concorde con la testa del re che rotola nel cesto. Ci serve invece la sintesi di Bernard Mandeville, filosofo olandese nato nel 1670, cresciuto in Inghilterr­a, filosofo libertino e immoralist­a pertanto disinteres­sato alla vanagloria della reputazion­e, che dice: «Volete essere puri? Sarete dei selvaggi» (avete tenuto a mente l’aggettivo?).

Prima del gran finale serve, come sempre, la premessa: la corruzione è brutta, è sporca, è cattiva, ma è dato il fatto che non è stata debellata – come la malattia e la mortalità dell’uomo – e che essenzialm­ente è il rifiuto dell’assassinio. E non seguirà la critica, ma la più distaccata delle analisi: i ragazzi dei Cinque stelle con ogni evidenza non sono corrotti, né sono partiti dall’atto di sangue, perché non ne hanno la struttura, sono partiti da un più contempora­neo e ingentilit­o vaffanculo. Ora riversano le loro colpe sui padri, gli impongono la gogna pubblica via Facebook, calunniano in procura i fidanzati, si inventano aggression­i nei parcheggi dei supermerca­ti, sono in una fase attenuata di brutalità, e per concludere: non sono corrotti perché è uno stadio evolutivo a cui non sono ancora arrivati. * editoriali­sta de La Stampa

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