IL MESTIERE DI VIVERE
Paulina Flores è una bella cilena bionda nata in un rione di Santiago nel 1988, quando il suo Paese votava il Plebiscito che chiudeva per sempre la dittatura di Augusto Pinochet. C’è molto del suo Cile nei nove racconti di Che vergogna; la verità è che sono storie che potrebbero accadere anche altrove, e invece non possono che essere successe lì. A Talcahuano, per esempio, misero villaggio portuale «che non piaceva a nessuno per quel suo cielo imbronciato». Qui un gruppo di ragazzini ribelli combatte la
noia estiva traducendo le canzoni degli Smiths in spagnolo, e intanto progetta di rubare gli strumenti musicali da una chiesa. Un piccolo sogno di rivolta che si spegnerà prima che l’estate finisca. Possiamo pensare che la normalità ci salverà da un destino sbandato, poi un giorno scopriamo che studiare, lavorare, «fare tutte le cose che fanno le persone per raggiungere un certo benessere», ci ha semplicemente resi delle persone stanche, che non sapranno mai cosa avrebbe potuto essere. Ecco: gli abbagli, le delusioni, la solitudine, le sconfitte sono il filo che tiene insieme queste storie di incontri fortuiti che si rivelano inganni, di studenti che hanno perso l’innocenza in biblioteca, di appartamenti occupati da madri dispotiche e vicini di casa guardoni. Diverse tra loro, eppure tutte convergenti verso «il momento in cui non contano tanto i fallimenti quanto il bisogno di condividerli» (lo ha detto Alejandro Zambra, altro talentuoso scrittore cileno). Che poi è un altro modo per dire che Flores preferisce l’empatia alla consolazione di un improbabile lieto fine. Questo suo luminoso debutto ha vinto il premio Roberto Bolaño 2016; in realtà lei è più una discepola di Carver, aggiunge emozione lavorando per sottrazione. La «vergogna» del titolo è quella di un padre disoccupato che porta le figlie a spasso per le strade di Santiago fino alla casa di uno sconosciuto; dovrebbe essere il suo riscatto, si trasformerà nel teatro della più grande umiliazione.