La politica corre velocemente e i suoi cicli sono più rapidi: la stessa insofferenza che genera il tuo successo, genera il tuo insuccesso
Walter Veltroni
Dieci anni fa, ieri: «Si votò a fine febbraio. Elezioni sarde, proprio come adesso. Il Pd perse prendendo il 43 per cento dei voti. All’epoca sembrò una sconfitta sanguinosa. Osservata con le lenti della relatività, quella percentuale ora suona come un miracolo». Walter Veltroni si dimise dalla tolda di comando del partito che aveva fondato e in breve passò dagli scranni parlamentari alla scrivania di casa sua: «Avevo detto che non sarei più tornato e più di qualcuno pensò che scherzassi. Sono ancora qui, senza ruoli politici, con il solo desiderio di inventare storie». L’ultima, l’incontro tra un adolescente rimasto orfano e un fratello mai conosciuto, è nei cinema. Dentro C’è tempo, un road movie attraversato da un’allegra malinconia, gli ossimori di chi ha provato sempre a tenere insieme tutto e il suo contrario: «È il mio limite. Fatico a spaccare o a dividere e soffro ancora di più a preferire la certezza al dubbio. Oggi, anche se sono di cartapesta, a dominare sono certezze inossidabili, anche in politica».
Che lei pensa di aver lasciato per sempre? «In questi 10 anni non ho mai chiesto nulla e niente chiederò domani. Né ruoli, né poltrone. Se mi domandano un’opinione, mi esprimo volentieri. Ma la politica non è e non sarà la mia vita futura. Mi troverei a disagio con semplificazione, toni e violenza di fondo. Sognavo un Pd senza correnti e lotte e sapevo che per ottenere un orizzonte di quel tipo avrei dovuto spaccarlo. Davanti a quell’ipotesi, ho optato per il passo indietro definitivo. Ma non ci ho ripensato né credo di aver sbagliato». Abbandonò la politica da un giorno all’altro. «Con un certo sollievo e l’impressione di essermi tolto un peso dalle spalle. Riabituarsi alla normalità non fu semplice. Avevo paura dello squilibrio improvviso. Quando uno che ha avuto le responsabilità e anche il potere che ho avuto io smette con la radicalità con cui ho smesso io, qualcosa accade, ma lo sapevo e lo avevo messo in conto». Cosa accade? «Il suono del telefono si dilata. Il tavolo si svuota. Le relazioni umane si fanno più rarefatte. Diminuiscono le chiamate, cambia il ritmo della tua vita, ci si riappropria di se stessi. Quando ero sindaco c’erano giorni in cui piangevo fisicamente per la fatica e magari arrivavo alle dieci di sera con ancora sette-otto cose da fare. Le facevo con entusiasmo – è stata l’esperienza più bella della mia vita – ma era ieri. Non posso e non voglio rimpiangere il passato». Dopo libri e documentari, un film. «Ci sono arrivato dopo sette documentari, con gradualità, proprio come avevo fatto con i saggi e i racconti prima di scrivere un romanzo». Cosa racconta C’è tempo? «La reciproca scoperta tra due persone che più lontane non avrebbero potuto essere e che tenendosi per mano e conoscendosi escono dal loro labirinto e dalle loro solitudini ritrovando il sentiero insieme. Ci sono un ragazzino di 13 anni diventato orfano e un quarantenne chiamato a fargli da tutore che vive ritirato, in montagna, a studiare arcobaleni. Il primo è ordinato, metodico, un po’ pedante. Il secondo è disordinato, precario, in costante affanno, in perenne ritardo. Entrando in relazione tra loro, cresceranno. Due solitudini che, incontrandosi, libereranno entrambi dall’attanagliamento. Il film vuole trasmettere anche un senso di speranza in un tempo buio: calore in un’epoca fredda». C’è tempo è un film piccolo. «Ma così piccolo che la macchina che porta in giro i due protagonisti per le strade del centro Italia è di Stefano Fresi, l’attore principale. Al denaro, abbiamo sopperito con le idee». Dopo un paio di decenni con l’assalto alla porta, si è ritrovato a dover proporre lei.