Al fondo della strada
Che cosa era successo a Ern Egri Erbstein per passare, pressoché da un giorno con l’altro, dalla condizione di uomo più ammirato e amato della città a quella d’appestato in fuga?
Era un innovatore, un umanista di stampo rinascimentale, applicava allo sport le scienze alimentari, la filosofia, la psicologia, la preparazione personalizzata e un’idea di responsabilità collettiva delle comunità. Da allenatore condusse la Lucchese dalla serie C al sesto posto in serie A, e alla domenica sera, quando rientrava da trasferte vittoriose, i sostenitori lo prelevavano dal torpedone per portarlo in trionfo sulle mura. E poi, pressoché da un giorno con l’altro, non gli tesero più la mano, non lo salutarono più, gli lanciavano occhiate rancorose o tuttalpiù abbassavano lo sguardo. Le figlie furono espulse da scuola. Che cosa era successo? Erano state varate le leggi razziali – estate 1938 – e le leggi avevano compiuto il loro compito, avevano legittimato un pensiero. Lo avevano legittimato e dunque incoraggiato: Erbstein era un ungherese figlio di padre ebreo, un diverso, una minaccia, un nemico, un subumano.
È sciocco pensare che il razzismo sia una teoria fondata su precetti biologici, e cioè che sia razzista soltanto chi ritenga un uomo inferiore perché la struttura chimica e molecolare di cui è plasmata la sua etnia (la sua razza) è inoppugnabilmente meno evoluta. Quegli studi, che non valgono la carta su cui sono scritti, erano la giustificazione pseudoscientifica, l’alibi su cui codificare e rendere pratica di Stato la liturgia del pogrom: la persecuzione e l’ammazzamento rituale degli ebrei. E dunque prima si massacravano con la scusa della religione, poi si massacrarono con la scusa della scienza. E altrettanto sciocco è pensare che l’antisemitismo abbia nulla a che fare con altre forme di razzismo: ammazzavamo gli ebrei perché erano diversi, e pertanto incolpati della nostra miseria, e soprattutto perché erano qua. Quante volte avete sentito dire che il razzismo si risveglia perché c’è l’immigrazione? Ecco, vero, prima non eravamo razzisti coi neri. Perché non erano qua.
Specialmente è sciocco pensare che si possa essere compiutamente razzisti o compiutamente no. Una quota di razzismo c’è in ognuno di noi. O, se preferite, di pregiudizio. Non bisogna averne paura: il pregiudizio è inevitabile, è il punto di partenza per arrivare al giudizio, e solo non va assecondato. Noi oggi siamo in testa a ogni classifica europea di pregiudizio, forse perché viviamo in un Paese di recente immigrazione. Il 43 per cento degli italiani non vuole musulmani in famiglia, e la percentuale scende al 33 e al 24 in Germania e Francia, e pure ne ospitano di più, e si sono misurati col terrorismo. Significa che dove si ha maggior consuetudine coi musulmani – e nonostante gli attentati – si è avuta l’opportunità di conoscerli e di domare il pregiudizio. Nel 1938 (è successo qui, è successo ottant’anni fa) il pregiudizio fu invece legittimato e incoraggiato. Quando si cerca di escludere per legge gli immigrati dal reddito di cittadinanza, e ci si riesce solo in parte per la solidità delle istituzioni, si sta stabilendo per legge una differenza e si incoraggia il pregiudizio. Quando un ministro insiste ossessivo a dire che sono un branco di delinquenti, la pacchia è finita, li andremo a prendere casa per casa, li cacceremo a calci nel culo, si sta incoraggiando il pregiudizio. E tutto quanto ci è più caro, tutto quanto abbiamo studiato a scuola con le lacrime agli occhi, è dimenticato, è inutile. Nella prefazione a Se questo è un uomo (chi non l’ha letto dicendosi mai più?), Primo Levi scrive del pregiudizio, e spiega che quando il pregiudizio finisce col prevalere sul giudizio, al fondo della strada c’è il lager.