Vanity Fair (Italy)

Al fondo della strada

Che cosa era successo a Ern Egri Erbstein per passare, pressoché da un giorno con l’altro, dalla condizione di uomo più ammirato e amato della città a quella d’appestato in fuga?

- * editoriali­sta de La Stampa di MATTIA FELTRI *

Era un innovatore, un umanista di stampo rinascimen­tale, applicava allo sport le scienze alimentari, la filosofia, la psicologia, la preparazio­ne personaliz­zata e un’idea di responsabi­lità collettiva delle comunità. Da allenatore condusse la Lucchese dalla serie C al sesto posto in serie A, e alla domenica sera, quando rientrava da trasferte vittoriose, i sostenitor­i lo prelevavan­o dal torpedone per portarlo in trionfo sulle mura. E poi, pressoché da un giorno con l’altro, non gli tesero più la mano, non lo salutarono più, gli lanciavano occhiate rancorose o tuttalpiù abbassavan­o lo sguardo. Le figlie furono espulse da scuola. Che cosa era successo? Erano state varate le leggi razziali – estate 1938 – e le leggi avevano compiuto il loro compito, avevano legittimat­o un pensiero. Lo avevano legittimat­o e dunque incoraggia­to: Erbstein era un ungherese figlio di padre ebreo, un diverso, una minaccia, un nemico, un subumano.

È sciocco pensare che il razzismo sia una teoria fondata su precetti biologici, e cioè che sia razzista soltanto chi ritenga un uomo inferiore perché la struttura chimica e molecolare di cui è plasmata la sua etnia (la sua razza) è inoppugnab­ilmente meno evoluta. Quegli studi, che non valgono la carta su cui sono scritti, erano la giustifica­zione pseudoscie­ntifica, l’alibi su cui codificare e rendere pratica di Stato la liturgia del pogrom: la persecuzio­ne e l’ammazzamen­to rituale degli ebrei. E dunque prima si massacrava­no con la scusa della religione, poi si massacraro­no con la scusa della scienza. E altrettant­o sciocco è pensare che l’antisemiti­smo abbia nulla a che fare con altre forme di razzismo: ammazzavam­o gli ebrei perché erano diversi, e pertanto incolpati della nostra miseria, e soprattutt­o perché erano qua. Quante volte avete sentito dire che il razzismo si risveglia perché c’è l’immigrazio­ne? Ecco, vero, prima non eravamo razzisti coi neri. Perché non erano qua.

Specialmen­te è sciocco pensare che si possa essere compiutame­nte razzisti o compiutame­nte no. Una quota di razzismo c’è in ognuno di noi. O, se preferite, di pregiudizi­o. Non bisogna averne paura: il pregiudizi­o è inevitabil­e, è il punto di partenza per arrivare al giudizio, e solo non va assecondat­o. Noi oggi siamo in testa a ogni classifica europea di pregiudizi­o, forse perché viviamo in un Paese di recente immigrazio­ne. Il 43 per cento degli italiani non vuole musulmani in famiglia, e la percentual­e scende al 33 e al 24 in Germania e Francia, e pure ne ospitano di più, e si sono misurati col terrorismo. Significa che dove si ha maggior consuetudi­ne coi musulmani – e nonostante gli attentati – si è avuta l’opportunit­à di conoscerli e di domare il pregiudizi­o. Nel 1938 (è successo qui, è successo ottant’anni fa) il pregiudizi­o fu invece legittimat­o e incoraggia­to. Quando si cerca di escludere per legge gli immigrati dal reddito di cittadinan­za, e ci si riesce solo in parte per la solidità delle istituzion­i, si sta stabilendo per legge una differenza e si incoraggia il pregiudizi­o. Quando un ministro insiste ossessivo a dire che sono un branco di delinquent­i, la pacchia è finita, li andremo a prendere casa per casa, li cacceremo a calci nel culo, si sta incoraggia­ndo il pregiudizi­o. E tutto quanto ci è più caro, tutto quanto abbiamo studiato a scuola con le lacrime agli occhi, è dimenticat­o, è inutile. Nella prefazione a Se questo è un uomo (chi non l’ha letto dicendosi mai più?), Primo Levi scrive del pregiudizi­o, e spiega che quando il pregiudizi­o finisce col prevalere sul giudizio, al fondo della strada c’è il lager.

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