Vanity Fair (Italy)

QUANDO PARTI UN PASSO INDIETRO. E VINCI

- di GRETA PRIVITERA foto ANDREA SAPUTO

Con eleganti falcate seziona l’asfalto. Il mento è in su, il passo veloce, fiero, i piedi sfiorano il marciapied­e che sotto tanta grazia sembra trasformar­si in tappeto rosso. La seguo per Modena e annaspo cercando di starle dietro. Raphaela Lukudo, leggings neri, giubbotto di pelle e treccine fino alla cintura, mi guida verso piazza Grande e non si accorge di tutte le teste che si girano al suo passaggio. La velocista in forza all’Esercito, campioness­a italiana nei 400 metri piani, vorrebbe portarmi da «La Mari», la nonna acquisita da cui sta quando lascia la caserma a Roma: «Cucina le tigelle migliori del mondo», dice con accento emiliano; ma ci fermiamo in un bar del centro perché non vuole pesare sulla signora che «fa già tanto per me».

Le due ore che passo con Raphaela sono un continuo intrecciar­si di Africa, le origini, Londra, dove vive la famiglia, Italia, o meglio, Emilia e la casa de «La Mari».

La campioness­a è appena tornata dagli Europei indoor di Glasgow, con le sue compagne di squadra ha vinto la medaglia di bronzo nella staffetta 4x400. Nel 2018, è diventata famosa per la foto scattata ai Giochi del Mediterran­eo dove lei e le altre tre compagne italiane di seconda generazion­e festeggian­o l’oro nella staffetta, dietro sventola il tricolore. In quelle ore andava in scena il raduno di Pontida.

Si aspettava di diventare un simbolo dell’integrazio­ne? «Ma figuriamoc­i. La mattina dopo la gara, sono stata sommersa di messaggi. Wow, mi sono detta, finalmente la stampa è interessat­a all’atletica, e invece era scattata la polemica. Ero felice che un’immagine così bella fosse virale, ma mi scocciava pensare che siamo ancora al punto dove si

nota il colore della mia pelle. Vorrei dire che l’Italia è un Paese dove l’integrazio­ne esiste, ma non è sempre così. Io sono fortunata». Ha letto della vicenda di Foligno, dove un bambino di origini africane è stato messo in un angolo della classe e offeso dal maestro per «esperiment­o»? «Sì, se fossi stata la madre mi sarei arrabbiata moltissimo con l’insegnante che, in teoria, dovrebbe essere un esempio positivo». Lei dice che l’atletica è un’isola felice. Ma non va così per tutti gli sport, pensi al calcio. «Se vedo i giocatori stranieri insultati dai tifosi mi sento male. In Inter-Napoli, quando gli ultras hanno fatto il verso della scimmia a Kalidou Koulibaly, ho provato rabbia, lui ha continuato a giocare: che grande! Io credo che avrei lasciato il campo. Servono pene alte, il calcio è uno sport di massa e avrebbe il potere di cambiare la cultura di questo Paese». Da dove vengono i suoi genitori? «Dal Sudan. Sono arrivati in Italia 27 anni fa, è stato un viaggio lungo e difficile. Prima di fermarsi ad Aversa, dove sono nata, hanno visto Francia, Svizzera. Un po’ come succede ai ragazzi che arrivano oggi dalla Libia. Come si fa a non capirli?». Che cosa vuole dire? «Chi lascia la sua casa lo fa per necessità. Mi chiedo che cosa ci sia di strano nel fatto di voler migliorare la propria vita». Che bambina era? «Felice. Nata in Campania, a due anni ci siamo trasferiti a Modena. Qui mamma faceva la donna delle pulizie, papà l’operaio: lavoravano tantissimo. Io e mia sorella eravamo le prime ad arrivare a scuola, e le ultime a uscire. Ci siamo dovuti arrangiare, ma erano tante le famiglie ad aiutarci». E ora? «Ancora di più da quando la mia famiglia si è trasferita a Londra. Quando sono a Roma, nella caserma del Centro sportivo olimpico dell’esercito, non vedo l’ora di tornare il weekend a Modena da “La Mari”, è l’unico luogo che chiamo casa». Perché non è rimasta a Londra con la sua famiglia? «Perché sentivo che il mio futuro era nello sport. Così, a 18 anni, sono “scappata” e volata in Italia. Ho finito il liceo artistico e sto per laurearmi in Scienze motorie. Sono contenta che loro siano rimasti lì, mamma si è iscritta al college e ha preso il diploma da infermiera, non so se in Italia l’avrebbe fatto, nel Regno Unito è più facile cambiare vita». Quando ha iniziato a fare atletica? «Tardi, avevo 12 anni. Prima praticavo il divaning». Che cosa, scusi? «L’arte dello stare sdraiati sul divano (ride). Non avevo mai praticato nessuna attività extrascola­stica, i miei non potevano seguirci. In seconda media, un gruppo di amiche andava ad atletica e ci ho provato anche io. Piano piano al campo scuola di Modena hanno capito che avevo un talento, ho iniziato a vincere ed è arrivata la maglia azzurra. C’è chi dice che chi ha origini africane è geneticame­nte portato per gli sport. Non so se è una questione genetica, credo sia più una cosa di testa». In che senso? «Molti vengono da situazioni difficili, partendo un passo indietro dalla linea del via, hai più rabbia, più “fame” e ce la metti tutta per arrivare primo. Per alcuni è l’unico modo per riscattars­i e trovare un posto nella vita». Lo è stato anche per lei? «Non proprio, ma di sicuro quando ero piccola avrei voluto anche io una nonna vicina, i genitori più liberi, e anche i vestiti, i giochi delle mie amiche. Ma credo che è anche grazie a queste “mancanze” che vinco». Quali sono i prossimi obiettivi? «A maggio i Mondiali di staffette a Yokohama, dobbiamo andare bene per arrivare ai Mondiali di Doha e qualificar­ci per Tokyo 2020, le Olimpiadi». C’è una sportiva o uno sportivo che ammira? «Serena Williams». Sa che è in copertina di questo numero? «O Dio mio, insieme a me?».

Vorrei dire che l’Italia è un Paese dove l’integrazio­ne esiste, ma non è sempre così. Io sono fortunata

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PODIO STORICO Raphaela Lukudo, 24 anni, in azione nei 400 metri ai recenti Europei indoor di ATLETICA a Glasgow. Con la staffetta azzurra 4x400 ha vinto la medaglia di bronzo, risultato che mancava all’Italia da 17 anni.

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